giovedì 31 dicembre 2009

domenica 20 dicembre 2009

La signora che non parla


Continuano ad arrivare messaggi  dai luoghi e dai tempi più diversi che sono stati toccati da Carla, ringrazio tutti in modo collettivo, ma sto registrando ogni messaggio perché voglio rispondere a ciascuno singolarmente. Soprattutto mi commuove il fatto che molte persone che ci conoscono solo attraverso le parole che spendiamo in vari luoghi della comunicazione, scrivono e si dolgono di questa perdita; è il segno di quanto ci sia bisogno di persone che creano legami e fratellanza con la testimonianza di vita prima che con qualsivoglia giusta lotta.
Ringrazio particolarmente quelli che hanno rilanciato in rete le notizie che andiamo diffondendo, Marco Rossi Doria, Luca Sofri, Adriano Sofri, Daniela Lepore e Decidiamo Insieme e particolarmente ringrazio l’inviato del Corriere della Sera Marco Imarisio che il giorno 18 alla rassegna di “Prima Pagina” di RAI Tre ha avuto il coraggio di leggere ‘un articolo non scritto’ concernerete la vita e la morte di Carla.
Per dare occasione ai tanti che hanno amato Carla in vita e che la stanno conoscendo ora l’Associazione Maestri di Strada che presiedo ha deciso di pubblicare una rassegna degli scritti di Carla e di organizzare quando saranno editati delle presentazioni in diverse città per dare occasione a più persone di condividere in modo gioioso e costruttivo quello che Carla ci ha lasciato. Per questo motivo ha aperto una sottoscrizione che ha già raggiunto 1500 euro.
La sottoscrizione resterà aperta ancora a lungo per finanziare tutte le attività connesse a questa pubblicazione.  I dati bancari sono Maestri di Strada ONLUS (Banca Sella Sud - IBAN:IT39 O 0304903400052886631730) 

Repubblica 19 dicembre 2009

Carla, una vita come Chance

La sera del 14 dicembre si è spenta Carla Melazzini docente per undici anni nel progetto Chance che cerca di recuperare quelli che non vanno a scuola. La sua famiglia veniva da una piccola valle tra “la bergamasca” e la Valtellina. Dal profondo nord passando per Pisa dove aveva incontrato e sposato chi scrive è arrivata a Napoli ed ha dedicato i quaranta anni migliori della sua vita a questa città portando nei luoghi dell’esclusione e della sofferenza una cultura aperta, accompagnata da una solidità umana basata sul profondo rispetto degli umili e dei semplici. La solidità montanara nella liquidità di una vita urbana degradata. All’inizio la chiamavano ‘la svezzese’ un misto tra svizzero e svedese ma poi è stata amata e rispettata senza aggettivi di luogo.
Essere grande ed umile al tempo stesso è la forza che l’ha portata ad unire intorno a sé ‘gli allievi che si incontrano nei peggiori vicoli di Napoli’ e scienziati sociali di varia estrazione, ad avere il rispetto del sindaco della città come dei commercianti del luogo che la chiamano ‘la signora che non parla’ cioè che non li apostrofa approfittandosi di un rapporto di dipendenza mercantile. E l’ha portata a guidare con la forza dell’esempio i professionisti più diversi: giovani educatori, genitori sociali che aiutano a’raffreddare i conflitti’, docenti, psicologi, artigiani che aiutava nel ritrovare un senso anche nelle situazioni più caotiche o dopo le esperienze più frustranti.
La mattina del 16 nella Chiesa del Soccorso di San Giovanni centinaia di persone che lei aveva unito in vita erano raccolte in un silenzio attonito a testimoniare quello che dovrebbe essere una comunità civile capace di educare i giovani. E abbiamo visto quanto questa donna, insieme a tante sue colleghe e colleghi stanno dando a questa città ed a questo paese perché riconquisti i livelli essenziali di civiltà.
Nella sua casa di Corso San Giovanni - portate dai passi delle persone, dai telegrammi, dalla posta elettronica - sono arrivate le testimonianze di quanti in Italia l’hanno conosciuta e la stanno conoscendo attraverso la testimonianza di chi continua il suo lavoro.
Sono giunte anche parole di solidarietà dalle istituzioni, dal sindaco di Napoli, dal governatore della Campania, dall’Assessore Regionale all’istruzione.
Chi scrive spera che questo raro momento di unità aiuti le persone e le autorità a capire che il mondo reale, quello che vale la pena vivere, non è quello delle rappresentazioni faziose, ma è semplicemente fatto da uomini e donne che si riconoscono come tali e che si amano attraverso le persone che sanno meglio riconoscere e rispettare la loro umanità.
Cesare Moreno

venerdì 18 dicembre 2009

Un fraterno addio




La mattina del 16 dicembre la chiesa del Soccorso a San Giovanni era gremita fino a fuori.
Una folla attonita si è stretta in un silenzio totale intorno al corpo di Carla,
In prima fila c’erano, come si conviene, gli stretti congiunti ma subito dopo c’erano i congiunti nella legge  della solidarietà umana, c’erano i nostri migliori allievi, di origine controllata in quanto provenenti dai peggiori vicoli di Napoli, ed era pieno d fratelli e sorelle.
Carla è stata maestra per molte professioni: hanno imparato da lei gli educatori, i genitori sociali, i coordinatori, gli insegnanti, gli artigiani-esperti e gli psicologi. Lei li ha guidati con la forza dell’esempio ma soprattutto ha potuto guidarli perché ciascuno ha sentito il suo sguardo amico, il rispetto personale. Persino quelli che l’hanno solo sfiorata, i nostri vicini, il meccanico, i commercianti hanno sentito la sua aura solidale: “la signora che non parla”, quella che non si approfitta della condizione di temporanea dipendenza del commerciante per apostrofarlo e umiliarlo.
E tutti questi erano presenti; il funerale era degno di lei: c’erano quelli a cui aveva restituito parola ed il diritto ad esprimersi e quelli – professori, presidi, dirigenti – che la parola la usano per professione; quelli che sanno aiutare per istinto come i genitori sociali e quelli che lo fanno di professione come gli psicologi; gli artigiani che sanno aiutare i ragazzi con i gesti e con il fare, gli educatori che lo sanno fare anche loro usando la parola e la condivisione.
Poi c’erano altre sorelle e fratelli. C’erano le Piccole Sorelle di Gesù, le sorelle di sua sorella. Un ordine contemplativo che vive nel mezzo delle periferie più degradate dell’intero mondo, qui a Napoli anche loro hanno frequentato i peggiori vicoli: prima le baracche della Marinella, poi le baracche verticali del  Rione Amicizia, ora il Lotto Zero. In un modo molto diverso sono state maestre di strada molto prima di noi. Carla me le ha fatte conoscere e mi ha avvicinato alla contemplazione  che per me era una parola sconosciuta, e mi ha insegnato che dal deserto si apprende più che da qualsiasi altra esperienza e che il deserto non va cercato  in Africa, che esistono deserti urbani fatti di assenza di relazioni e di rispetto  ed è qui che bisogna conservare la propria integrità. Dunque tutte le volte che vedo le gonne di jeans delle piccole sorelle, la loro divisa di operaie di un altro tempo, io rivedo Carla che mi introduce alla conoscenza del deserto, che mi mostra le rose di sabbia,  che mi fa vedere la foto di Charles De Foucault. Dunque sono sorelle da cui Carla ha imparato che si può conservare l’integrità anche in situazioni estreme e difficili.
E poi sono arrivati da tutta Italia molti nostri compagni di lotta, quelli con cui facevamo manifestazioni quasi tutti i giorni, blocchi stradali, tafferugli e soprattutto facevamo grandi fughe e buscavamo molte manganellate.  Carla ha avuto molti amici uomini che le hanno voluto bene come fratelli e che la consideravano  soprattutto come persona. Certamente non la vedevano come asessuata, ma ne avevano un fraterno e cameratesco rispetto e viceversa lei mai ha agito sottomettendosi o compiacendo il genere maschile. Era talmente donna che nessuno ha mai osato trattarla da femmina. Dunque questi erano  fratelli arrivati da ogni parte d’Italia e tanti altri si sono fatti sentire con messaggi e ricordi via mail. E soprattutto c’era la folta delegazione di Forli al cui giornale – Una Città - lei ha collaborato con grande partecipazione.
E poi c’era il parentado: quattro nipoti sondriesi  con coniugi in rappresentanza di quattordici pronipoti. Le relazioni parentali spesso si inaridiscono perché sono scontate, ma Carla e le sue sorelle le hanno coltivate con sistematicità, cosicché la zia e  la prozia  sono state quello che dovrebbero essere per tutti: altri titolari della cura parentale che essendo in posizione defilata possono aiutarti e consigliarti in un modo complementare al genitore.
E poi c’erano i parenti acquisiti per parte mia, i miei quattro fratelli e i loro figli ed anche questi hanno conosciuto Carla come persona amica che con la sua presenza sembrava presidiare un punto cardinale.  E poi i nuovi parenti dei giovani che si sposano: una nuora dalla Polonia, una nipote acquisita dalla Russia, una cognata francese, un nipote italo-francese.
Dunque riassumendo c’erano persone da tutta Italia, dal profondo nord passando per la toscana l’Emilia e il Lazio e c’erano persone dal Giappone, dalla Russia, dal Perù, mentre a casa giungevano messaggi da molte altre località del mondo e dell’Italia.
Dunque per un momento San Giovanni a Teduccio ( quello che nella mia infanzia era etichettato come ‘San Giovanni  ‘atterraciuccio’ tanto erano scassate le strade) è diventato il centro del mondo, il centro di una rete che si stendeva sulla città, sull’Italia e su tre continenti, ed al centro di questi legami c’era Carla.
E’ stato facile per me dire che Carla il suo giardino dell’Eden lo aveva certamente raggiunto, che anche non credendo in un al di là possiamo credere in quello che c’è qua,  e che sta in mezzo a noi. Il miracolo della rinascita noi lo abbiamo visto, io vedo come le mille voci che sento mi restituiscono una immagine di lei ancora più ricca di quella già ricca che mi era nota e questo mi mette in debito con tutte queste persone ed è per loro che scrivo oltre che per me. E’ un paradosso della vita di Carla: non voleva che il suo nome fosse esposto in nessun modo ed invece la quantità di persone che pronunciano quel nome è enorme,  la sua riservatezza è stata tanto radicale da diventare di dominio pubblico, il suo casto modo di amare come sorella è noto a troppi. L’ultimo libro che mi ha consigliato di leggere è “Le antigoni” di George Steiner, un libro straordinario che tratta della sorellanza  partendo dall’Antigone di Sofocle un personaggio per il quale abbiamo condiviso un intensa passione.
Dunque in questo giorno si sono unite in un punto focale tante linee di forza che ci hanno restituito un ologramma di Carla, la materializzazione di un pensiero condiviso. Questo è molto consolante per me  e aiuta tutti a nutrirci ancora della sua forza, ed è quello che in molti modi cercherò e cercheremo di fare nel tempo a venire.
Ma permettetemi una sola nota personale: quando tutti sono andati via portandosi nel cuore il loro pezzo, io torno a vedere una stanza vuota e non posso dire alla mia amata quanto è bello quello che sta accadendo e questo non mi riesce di accettarlo.

martedì 15 dicembre 2009

Carla, maestra di strada e nostra maestra se ne è andata


Se ne è andata Carla.
Il suo corpo sta qui vicino a me, freddo dopo una lunga malattia vissuta bene.
Abbiamo fatto il nostro ultimo bagno di mare il 28 agosto, al mattino presto perché non poteva prendere il sole forte a causa della chemioterapia, quando la spiaggia è deserta, il cielo pallido, il mare piatto appena increspato da onde minute che si infrangono in silenzio. Bastava  questo a farla stare bene, a farle dimenticare preoccupazioni e fatiche, la malattia. Era la stessa calma che da bambina aveva visto nelle acque del Pirlo, un laghetto alpino dell’aspra Valmalenco, dove il cielo si specchiava unendosi alla terra.  Aveva voluto che vedessi il Pirlo e con lei avevo girato tutte la valli più interne della Valtellina e scalato alcune vette ghiacciate.
Mi aveva portato anche in Val Madre, una valle stretta e selvaggia dove riteneva avere le sue vere radici: poche case ormai in rovina arroccate sull’alta sponda del torrente Madrasco, un piccolo cimitero abbandonato in cui Melazzini,  e altri assonanti cognomi, erano padroni.  Da questa valle venivano i fieri antenati, quelli che litigavano col vento, quelli che battevano il ferro col maglio idraulico,  quelli che non pronunciavano una parola di troppo e spesso neppure quelle essenziali.  I ritratti di questi antenati, come quello del nonno ‘maestro casaro’ stanno nella nostra stanza in una nicchia nel muro costruita  centinaia di anni prima non si sa per quale motivo, ma diventato il nostro altare agli dei Lari e Penati.  Qui c’è anche il ritratto dello zio Bruno, l’alpino  che ha eroicamente compiuto la ritirata di Russia senza abbandonare i suoi uomini e sorreggendoli in ogni modo, i ritratti dell’ironico zio Teresio che dalla lontana Argentina continuava a scrivere divertenti storie in dialetto valtellinese, le foto di Giovanna che vive in Giappone  e del Giardino di pietra, di Luisa e  del suo figlio peruviano  Elvis, e quella di una classe di scuola in Perù consistente in un vecchio banco posto in un prato a quattromila metri d’altezza sullo sfondo dei settemila delle Ande.
In altri luoghi della casa, sui vetri delle librerie, ci sono altri ritratti: Freud, Nietzsche, Leopardi, Konrad, Dante, Tolstoi.  Altri ne avrebbe messi solo  se li avesse avuto a portata di mano, ad esempio Dostoevskij, Melville ….
Queste e molte altre erano le sue radici,  linee di nutrimento cha portano lontano nello spazio, nel tempo, ma soprattutto  nella profondità dell’animo, in quelle zone dove  la complessità e la complicazione del reale cedono di fronte alle emozioni più semplici, dove ritroviamo antiche paure, dolori sopiti.  Carla ha custodito ostinatamente questi spazi da ogni invasione, dalla sua stessa invasione.  I suoi scrittori preferiti, gli esploratori degli abissi le sono serviti a far visita a questi luoghi per interposta persona a parlarne a se stessa, a me suo compagno e ai suoi figli, senza mai nominare esplicitamente il proprio dolore.
E ha dovuto fare forza a se stessa per generare figli, per  poter esprimere attraverso la carne una speranza ed una promessa che l’animo le impediva.  Prendere possesso della sua capacità di generazione è stata una fatica durata anni, e prendere possesso pieno della sua femminilità è stato ancora più difficile, è durato fino a  pochi anni orsono.  Negli anni dell’università la sua ritrosia era passata in proverbio, ha scoraggiato corteggiatori eccellenti con poche secche parolacce che lasciavano di stucco il pretendente che si aspettava da una persona riservata e diafana nell’aspetto parole miti e gentili. Come ‘capo’ del movimento degli studenti era così determinata che gli avversari non trovarono di meglio che scrivere sui muri gigantesche scritte ironiche sul suo conto. La determinazione ad affermare la  propria identità contro ogni tentativo di cucirle indosso un vestito l’ha portata ad essere una delle poche persone se non l’unica ad abbandonare la Scuola Normale di Pisa di sua volontà e per dichiarata incompatibilità con un modo di fare cultura lontano dal reale.
Tutti ammiravano la sua forza, la sua ostinata determinazione ad affermare le cose semplici e lei non lo sopportava, non sopportava che gli altri avessero tanta fiducia in lei,  non voleva autorizzare nessuno a farlo eppure lo faceva sistematicamente perché ogni volta dopo  quelle che io chiamavo ‘ ventate di ottimismo’   - in realtà fosche previsioni pessimistiche – con poche semplici parole riprendeva il cammino ed era tanto più seguita quanto più aveva dubitato dell’opportunità di avanzare. E poi protestava: ma chi li autorizza ad  avere fiducia?
La morte Carla è come la morte di una pianta millenaria, muta ed immobile testimone di avvenimenti che nella sua prospettiva sono effimeri  ed insieme nutrita da quanto le accade intorno, dal passare delle stagioni, dal calore del sole, dalla forza della terra. Quando muore una simile pianta per molto tempo niente cresce nei solchi un tempo occupati da radici vitali, ma col tempo tutto si trasforma in nuova linfa vitale. Io spero per noi che questo accada e che quanti le hanno voluto bene possano continuare a nutrirsi della sua forza.
Cesare

venerdì 11 dicembre 2009

Educare allo sviluppo promuovendo la crescita personale

Educare allo sviluppo promuovendo la crescita personale
L’educazione è indivisibile, possiamo guardarla da angolazioni sociali diverse e immaginare molte educazioni, ma se stiamo al centro della relazione educativa, se stiamo a fianco della persona che cresce, l’educazione è unica ed indivisibile. Questo il messaggio che chi scrive, Cesare Moreno - qualificandosi a ragione di una vita spesa in tal modo, come ‘Maestro di Strada’ - porta qualsiasi sia il contesto o l’occasione in cui viene richiesta la sua testimonianza. Quella che segue è la declinazione che ne aveva dato in occasione del seminario di formazione per docenti
“Ruolo dell’Educazione allo Sviluppo
nell’offerta formativa per la formazione di cittadini più critici e consapevoli”
che doveva svolgersi a Napoli per il 14 dicembre 2009 e rimandato a marzo per difficoltà burocratiche. Lo riproduco con qualche modifica per ricordare a me stesso e tutte le persone che si stanno impegnando in una nuova difficile impresa, quali sono le ragioni elementari del nostro impegno

Educare allo sviluppo o produrre sviluppo, agire lo sviluppo?  
Questo interrogativo si può ripetere pari pari per ogni “educazione a… “ . Educare alla pace o agire la pace? Educare alla democrazia o agire la democrazia?   E più in generale dovremmo porci la domanda se sotto il profilo filosofico e linguistico sia lecito aggettivare l’educazione o indicare un campo di applicazione limitato ancorché nobile e universale, e se sia lecito usare per l’educazione la forma plurale ‘le educazioni’.
Educazione significa tirarsi fuori e uso di proposito la forma riflessiva perché per definizione l’educare riguarda l’attività del soggetto rispetto a se stesso. Possiamo anche chiamare l’educarsi come l’attività di uscire fuori dalle cornici preesistenti. Basterebbe questo per includere una serie infinita di educazioni: l’educazione allo sviluppo, alla pace, all’intercultura, alla convivenza, al rispetto del genere etc…
Se consideriamo che una delle definizioni di educazione allo sviluppo riguarda la promozione di sensibilità verso la cooperazione internazionale con il sud del mondo vediamo subito che anche in questo caso l’educazione riguarda innanzi tutto la crescita di sé, la maturazione di una capacità di vedere se stessi in un processo globale di interazioni vicine e lontane. L’individuo non è negazione o opposizione al gruppo e alle comunità (da quella vicina alla più vasta comunità globale), l’individuo  è invece l’espressione più alta della relazionalità: la capacità di essere se stessi in quanto collegati e sostenuti da una rete ricca di legami. E questi legami sono tanto più ricchi quanto più cresce la capacità della persona di raffigurarsi l’altro.
La capacità di sviluppare relazioni si collega al possesso di competenze chiave che mi consentono di gettare lo sguardo molto oltre i limiti del visibile.  E’ necessario che io sia capace di raffigurarmi l’altro e di conoscerlo e considerare il suo punto di vista prima ancora di incontrarlo. Dunque è necessario uno spazio nel pensiero, una possibilità di manovra all’interno della mente che consenta l’ingresso e l’accomodamento – addomesticamento  - di pensieri nuovi. Questo è educazione: uscire fuori dalle cornici esistenti che è la stessa cosa che accogliere nuovi pensieri; però significa anche uscire fuori da se stessi e dal quadro di sicurezze esistenti.
L’educazione porta con sé una dimensione di rischio e di pericolo perché richiede sistematicamente di abbandonare posizioni sicure e consolidate. E’ quindi indispensabile che accanto alla persona che cresce ci sia qualcuno che rassicuri, che indichi cammini sicuri, è indispensabile che esista una relazione di fiducia negli altri, o almeno in alcune figure di riferimento.
Lo spazio per pensieri nuovi deriva dalla possibilità di sentirsi protetti da persone che sono già cresciute, che consideriamo abitanti di zone sicure. E qui in un certo senso si chiude un cerchio, perché uscire fuori dalle cornici è possibile avendo fiducia nell’altro, ma per avere fiducia nell’altro ho bisogno di uscire da me e questo mi spaventa.
Come stabilire una comunicazione, qualcosa di comune, prima ancora di potersi conoscere e parlare?
Per quanto possa apparire stravagante, la prima risorsa comunicativa di cui disponiamo è l’espressione del dolore.  Esprimere uno stato doloroso comunica immediatamente all’altro una richiesta di collaborazione alla quale siamo naturalmente sensibili per immediata e irriflessa identificazione. Ogni altro comportamento umano - costruttivo, fattivo, benefico -  è figlio diretto o indiretto della aggressività e come tale condannato a infrangersi contro le barriere difensive altrui.  Il dolore, la posizione depressa di chi sente bisogno di aiuto, è anche la posizione dell’accogliere pensieri nuovi, nuove raffigurazioni dell’altro. 
Dunque l’espansione del sé, la capacità di considerarsi abitanti del mondo coincide con la possibilità di vedere accolti i miei timori e i miei dubbi circa la possibilità di inoltrarmi nel mondo. L’educazione allo sviluppo dipende strettamente dalla crescita di sé. E viceversa una assenza di sensibilità al respiro del mondo, alla sua buona salute fisica, al benessere dei suoi abitanti è l’indicatore di una speculare sofferenza nella persona.
Questa visione consente di stabilire una stretta connessione tra ‘periferie’ del mondo, periferie del sociale, periferie dell’animo.  Ci sono zone di esclusione e di interdetto dove non desideriamo trovarci o recarci, sono le zone della sofferenza senza speranza, quelle in cui ci si perde come uomini.  Gran parte del ‘disagio della civiltà’ deriva dal tentativo di tenere fuori della nostra identità ciò che sfugge ad una razionalità lineare: emozioni e sentimenti che agiscono - e ci agiscono - a nostra insaputa e fuori controllo; e teniamo fuori e distanti da noi le zone della città – periferie e ghetti – dove pensiamo che le emozioni elementari la fanno da padroni, e le zone del mondo che sono in preda alle emozioni causate dalla insoddisfazione dei bisogni più elementari.
Ciò che ci spaventa della povertà, della fame, della esclusione sociale sono le emozioni incontrollate che possono scatenare che sono le stesse che noi a mala pena controlliamo.  Tutti gli adolescenti che scoprono in se stessi pulsioni sconosciute e ne sono spaventati, sono i più radicali a confondersi o a tenersi compulsivamente lontano dall’orrore che immaginano governi queste zone del sociale e del mondo.  Gli adolescenti che vivono fisicamente immersi  nelle zone di esclusione e di degrado possono far coincidere la loro voglia di educarsi – di tirarsi fuori dalle cornici esistenti – con un rabbia e un odio violento verso coloro che personificano le pulsioni elementari; o viceversa possono acquietarsi immedesimandosi nel  degrado.
E’ molto difficile quindi riconoscere in un adolescente aggressivo – oppure depresso e  chiuso in una sorda opposizione al mondo – una volontà di cambiamento, una spinta ad identificarsi con quelli che condividono – in ogni angolo del mondo e in ogni angolo delle coscienze – la sua sofferta realtà.  Una persona  troppo preoccupata del proprio dolore, troppo invasa dalla rabbia non ha spazio per accogliere altro ed altri.
Il nostro lavoro di ‘maestri di strada’ consiste allora proprio in questo, riuscire a stabilire una relazione e quindi uno spazio di pensiero per elaborare il proprio dolore e quindi per potersi aprire in quello stesso momento alla comunicazione con l’altro.
In questo senso noi facciamo in modo esplicito ‘educazione allo sviluppo’  ossia cerchiamo di stabilire una sistematica corrispondenza tra la crescita di sé e la crescita delle relazioni, tra crescita delle conoscenze e crescita della capacità di sentire il respiro del mondo.
Concretamente questo significa compiere un percorso di cittadinanza che non è educazione alla cittadinanza ma pratica della cittadinanza: insieme di occasioni conoscitive e pratiche in cui si realizza  - qui ed ora - l’essere cittadino.  L’educazione infatti non è - e non può essere - una disciplina scolastica, ma è una attività praticando la quale essa stessa diventa immediato apprendimento, mutamento nei comportamenti.
La cittadinanza è un laboratorio e non una lezione, sono tutte le occasioni in cui si prende in mano il proprio destino, si attua una ‘sorveglianza’ sui propri comportamenti e sul proprio pensiero.  Partecipare a un  “circle time” dove si discute delle relazioni ed dei comportamenti reciproci tra allievi, una pratica apparentemente autocentrata è in realtà la prima delle pratiche di cittadinanza, quella in cui la capacità di pensiero e di parola si confronta con l’esistenza  di altre persone. Bisogna aver realizzato questa pratica, aver visto quanta resistenza e difficoltà hanno i giovani ad entrarci per capire invece quanto essa sia importante in un processo di appropriazione di sè e delle relazioni con il mondo. Ci sono giovani che non riescono neppure a partecipare ad una simile elementare pratica e dobbiamo considerarli seriamente malati, non certo di una malattia organica o psichica, ma certamente di una grave patologia della socievolezza che non porta niente di buono né a loro né alla comunità in cui vivono.
Da questo punto elementare ed immediato si dipartono i sentieri della cittadinanza: i giovani sono chiamati a partecipare alla progettazione del proprio percorso attraverso ‘focus group’ e momenti di assemblea; sono chiamati ogni giorno ad autovalutare la propria presenza, sono chiamati sistematicamente a provare a se stessi di cosa sono capaci.  Infine sono sistematicamente impegnati in attività di comunicazione sociale (mostre, incontri, manifestazioni etc..) sono chiamati ad incontrare gli altri (incontri con giovani che sono impegnati nel volontariato sociale, incontri con comunità altre ospiti della città …); sono chiamati a conoscere le istituzioni incontrandole nella città  e nei luoghi propri; sono chiamati ad assumere responsabilità attraverso pratiche di educazione alla pari. E tanto altro che trasforma gli apprendimenti di tipo scolastico in competenze professionali e sociali da spendere nella vita quotidiana, nella cittadinanza attiva, nell’esercizio di professioni.
In proposito è sempre bene rileggere alcuni documenti fondanti, ad esempio  la raccomandazione europea per lo sviluppo di competenze chiave. In quel documento ad esempio, viene stabilita una connessione tra apprendimenti disciplinari e competenze per la vita – crescita personale, cittadinanza attiva, inserimento professionale – che dovrebbe essere sempre presente in ogni momento del nostro lavoro di istruzione e formazione. In quel documento viene richiamata la fondamentale differenza tra conoscenze e competenze ricordando che queste ultime sono ‘appropriate al contesto’, che - aggiungiamo noi - è un contesto fatto di relazioni, di culture, di eventi e fatti che richiedono interazioni, elaborazioni, mediazioni  piuttosto che apodittiche affermazioni.

Maestro di strada” esprime nel modo più sintetico ed immaginifico l’idea di una stretta interazione con i contesti di vita, e la necessità di spendersi per i giovani partendo da dove si trovano. In questo senso esso rinvia da un lato ad antichi maestri di strada, esempi di sapienza non arroccata che esistono in tutte le culture, dall’altro  al più moderno ed avanzato quadro di riferimento per i sistemi educativi.  E in entrambi i sensi postula una nuova professionalità educativa che occorre sia sostenuta da un sodalizio professionale che noi cerchiamo di rappresentare con l’associazione Maestri di Strada.
Il punto chiave per promuovere i tre aspetti dello sviluppo personale è un gruppo adulto, costituito di professionisti con competenze differenziate, che si comporta come gruppo accogliente di riferimento, in grado di offrire ai giovani quella certezza di guida e di competenza di cui hanno bisogno. Chi è accolto impara ad accogliere, chi è compreso impara a comprendere, chi è aiutato a crescere  aiuta lo sviluppo.  Il gruppo adulto, attraverso la reciprocità – rispetto reciproco, scambio cooperativo, collaborazione creativa - attiva un processo circolare di crescita che si estende ‘al mondo intero’.

Questa è dunque l’indicazione semplice ed insieme difficile per poter praticare una educazione allo sviluppo: aiutare ciascuno a crescere, a diventare padrone di sé sentendosi parte di una vasta comunità; ciò conferisce alla giovane persona in crescita la possibilità di ‘restituire’ alla comunità che lo ha cresciuto quanto ha ricevuto attivando comportamenti solidali e rendendosi capace di collegarsi la ‘sud del mondo’ perché si è collegato al sud suo proprio.

Tutto questo è stato sperimentato per 11 anni nel progetto Chance e custodito e diffuso dalla associazione professionale  che unisce docenti, educatori, formatori. Attualmente è in corso un nuovo esperimento consistente nel portare queste pratiche in dodici scuole della provincia di Napoli. Questo esperimento, finanziato interamente dalla Regione Campania, sta verificando la possibilità di far funzionare una delle classi delle scuole prescelte in modo sperimentale e finalizzato a recuperare i giovani che hanno trovato particolarmente difficile inserirsi nel funzionamento scolastico ordinario. Dall’interazione della scuola con questo esperimento dovrebbe nascere una riflessione sulle pratiche educative che può aiutare la modifica delle metodologie educative dell’intera scuola.

martedì 24 novembre 2009

Il Progetto Chance in dodici scuole

Venerdì 20 novembre 2009

Approvata la delibera regionale che trasforma il Progetto Chance in una risorsa ordinaria per 12 scuole

io non so se questa delibera sia veramente passata, può darsi che a causa di qualche correzione debba ritornare all'approvazione, ma ho preferito comportarmi come se fosse stata già approvata. 
In quello stesso giorno c'era il convegno 
Civitas Educationis-Interrogazioni e sfide pedagogiche, 
promosso dalla decana della pedagogia generale Elisa Frauenfelder, presenti i cattedratici di una decina delle principali università italiane. Si parlava in qualche modo di ruolo civile dell'educazione e mi è sembrata una occasione troppo ghiotta per non parlare di Chance. Nottetempo quindi ho scritto quanto segue e al mattino di sabato, mentre Pirozzi elaborava la sua nota, ho diffuso - volantinando come ai bei tempi - questo manifesto in 50 copie. Io credo che qui sia contenuta una risposta implicita alle molte questioni poste da Pirozzi, ma soprattutto credo che nella maniera più diretta, più semplice e lineare sia esposto quale è il problema attuale, che non riguarda Chance, ma - insisto - le basi su cui è fondata la nostra convivenza civile. Vorrei che ci attenessimo a questo punto elementare: tutto il resto sono accidenti, vicoli laterali in cui non intendo perdere nè me stesso nè quelli che sono capaci di intendere di cosa stiamo parlando.


Cosa può essere il progetto Chance per la scuola e per la società

Comunicazione per i partecipanti a "Civitas Educationis"

Il Progetto Chance ha rappresentato per undici anni un progetto di nuova cittadinanza fondato su giovani altrimenti esclusi. 
La portata generale del progetto deriva dal suo collocarsi in un punto strategico dello sviluppo di una società, quello in cui i giovani cittadini fanno il loro ingresso nell’ordine sociale esistente. In questo punto che appartiene insieme all’ordine dello spazio sociale e all’ordine dello spazio mentale di una civiltà, si realizza un incontro tra una configurazione sociale esistente e una nuova forma da realizzare insieme ai nuovi venuti. In questo punto si decide se una società è capace di crescere o semplicemente di includere, assimilare, digerire il nuovo, ingrassando senza crescere. 
Le periferie sociali, le periferie geografiche, le periferie dell’animo hanno un tratto comune: la capacità di mettere in discussione il patto sociale preesistente, la certezza dei fondamenti, la sicurezza dei ruoli sociali. 

I barbari alle porte 

C’è un modo di trattare coloro che premono sui confini della società che è epistemologicamente escludente: quelli di fuori sono ‘barbari’ non parlano la nostra lingua, non condividono il nostro episteme, la nostra weltenshaung, possono diventare dei ‘nostri’ a patto che imparino prima la nostra lingua.
L’educazione, e prima di questa la scuola che insegna a scrivere leggere e far di conto, rappresenta da questo punto di vista una porta di ingresso nel sociale, l’occasione in cui i sogni privati di milioni di famiglie possono diventare un progetto di trasformazione e crescita sociale.
 
Oppure no, la scuola può avere il ruolo delle forche caudine, una porta al cui passaggio è necessario abbassare il capo, essere umanamente umiliati per essere portati in società come prede piuttosto che come cittadini sovrani. Le pratiche educative che non siano anche pratiche di libertà, di cittadinanza immediata (non rimandata sine die), di creatività – libera invenzione di sé – non sono pratiche che allargano i confini della società, ma pratiche che pretendono di far passare il canapo nella cruna dell’ago. 

Milioni di giovani vivono la scuola in questo modo. I primi sono proprio quelli per i quali la scuola può vantare il ‘successo formativo’, il successo di una operazione di assimilazione che assume troppo spesso i contorni del conformismo, della sudditanza, della omologazione che generano sofferenza e disagio a cui i giovani stessi non possono che dare risposte stereotipe, conformi a un modello sociale che li ha privati della capacità di reinventarsi. Gli ultimi che vivono male la scuola sono quelli presso cui la scuola non può vantare alcun successo, quelli che sono restati fuori, i drop out, gli emarginati.

Secondo il punto di vista che stiamo proponendo questi ultimi potrebbero vantare la ‘purezza’, una sorta di selvaggia estraneità al conformismo sociale che ne farebbe addirittura dei soggetti umani privilegiati. Non sono mancati e non mancano i tentativi di privilegiare romanticamente gli ultimi come potenziali liberatori del mondo, quelli in grado di capovolgere il mondo ed aprirlo a una radiosa alba di fratellanza universale. Non mancano mai quelli che si fanno sedurre dal primitivismo, che sono ammaliati dagli ultimi e soffrono di un male nostalgico del primitivo molto simile al “mal d’Africa”.

Ma le cose dell’animo e della società non seguono mai i canali di una meccanica sociale lineare quanto una meccanica celeste pre-relativistica. Gli ultimi in una società della comunicazione, non sono affatto puri, non sono affatto liberi e assorbono l’episteme semplificata dell’avere che chiude alla complessità dell’essere. E l’insuccesso scolastico e formativo non apre a un mondo libero dalla schiavitù dei bisogni indotti, ma suggella col marchio dell’esclusione l’impossibilità di essere cittadino attivo insieme alla possibilità di essere un consumatore compulsivo di quanto il mercato offre e di quanto l’individuo può possedere con mezzi leciti o illeciti.

Rifondando città

C’è un altro modo di trattare coloro che sono ai confini che è intrinsecamente accogliente: dovete entrare perché insieme dobbiamo riscrivere le regole, dobbiamo costruire insieme un cerchio più largo, non dobbiamo fare spazio a nuovi cittadini ma costruire insieme nuova cittadinanza.
 Dunque il Progetto Chance occupandosi degli ultimi e degli esclusi non si è occupato di riammettere al banchetto dei consumi indotti quelli che non avevano i mezzi per farlo, ma si è occupato di restituire a giovani invasi insieme dal dolore e dalla coazione a ripetere il potere della parola e del pensiero. 
Dunque da questo punto di osservazione ha potuto avere un punto di vista privilegiato su quel crogiuolo dove al calor bianco si rifonda una società, osservare da vicino i processi psichici, i modi di socializzazione che consentono a ciascuno di riprendere in mano il proprio destino, di passare dalla condizione di etero direzione a quella di autonomia, da quella di anomia sociale a quella di sociatività, centri attivi di promozione di legami e di convivenza. 
Per realizzare questo obiettivo il Progetto Chance non ha usato una logica rivoluzionaria o una pedagogia alternativa. Non ha cercato di “capovolgere” le regole, né ha cercato un altrove pedagogico dove sperimentare nuove alchimie. Ha scelto di operare nei luoghi stessi dell’emarginazione, ha scelto di abitare i ghetti della città e dell’animo, di condividere l’esperienza degli ultimi per rielaborarla insieme a loro, per essere guide sicure ad uscire dai ghetti sociali e dalle prigioni dell’animo. Riuscire a utilizzare il pensiero e la parola in situazioni estreme, riuscire a mantenere il senso dell’impresa educativa quando il mondo intero ti crolla intorno, quando la violenza delle armi e la violenza dei consumi indotti svalutano continuamente la persona e la parola è la lezione di vita che noi abbiamo cercato di offrire ai nostri allievi, quella che ci rende stimabili ai loro occhi e legittimati a parlare. 
Maestri di strada quindi, maestri che insegnano la strada, guide per uscire fuori, per educarsi. 

Maestri che parlano nell’agorà, al mercato, come faceva Socrate che in piazza rispondeva a questioni di vita e di morte, rifletteva in pubblico sulla legittimità della vendetta di sangue e sulla necessità della legge. E per queste sue risposte, date fuori dal chiuso dell’accademia, fu condannato a morte. 

Oggi alle persone non viene offerta la cicuta ma esistono infiniti modi per intossicarsi, per uccidersi in senso professionale e pedagogico. A volte basta solo respirare a lungo un’atmosfera satura di veleni per restarci secchi. Dunque la nostra esistenza come educatori è ogni giorno a rischio e senza questo quotidiano rischio non saremmo veri educatori. Dunque dobbiamo essere felici di vivere nel rischio ma al tempo stesso sappiamo che è nostro dovere sopravvivere, dimostrare che sfidando il rischio è possibile crescere.

In questi undici anni l’esistenza Chance è stata sistematicamente esposta a letture svalutanti ed avvelenate: è un progetto di recupero sociale, si occupa di disgraziati senza speranza, meno male che ci sono, che sono così masochisticamente eroici, chissà quale colpa stanno espiando 
(Rulli e Petraglia sceneggiatori de O’Professore – sceneggiato Mediaset che oscenamente pretende di rappresentare i maestri di strada - hanno dato corpo a questo fantasma: o’Professore è un sessantottino assassino che espia la sua colpa dedicandosi – in modo paternalista e collusivo – ai figli di quelli che erano i suoi nemici di un tempo). 
Anzi i ‘maestri di strada’ in questa logica rispondono a un bisogno sociale di riparazione, una seconda occasione che non è data ai ragazzi ma ad una formazione sociale per riparare ferite che ha in precedenza inferto. E visti in questo modo siamo anche i testimoni di un delitto che i più vorrebbero occultare. Sulla base di questa emozione siamo stati tenuti ai margini, forse anche protetti, ma allo stesso modo in cui lo fanno i programmi di protezione per i testimoni scomodi: comunque vivi una vita nascosta. 

Una falla nel sistema di pensiero

Oppure siamo stati vissuti come se fossimo responsabili di una falla del sistema di pensiero in tutto analoga al “teorema di incompletezza” della matematica, una stranezza come l’esistenza dei numeri primi. La più perfetta delle scienze ha alla base una aporìa: esistono affermazioni vere non derivabili dagli assiomi; come dire che gli assiomi sono sempre incompleti, che esistono dei numeri primi che sfuggono alla regolarità delle serie. Un pensiero del genere leva il sonno a tutti i sistemisti (volevo dire proprio così), a quelli che hanno bisogno di un sistema che come pietra filosofale trasforma ogni problema in una eventualità prevedibile sulla base degli assiomi condivisi. Il fango trasmutato in oro. 

“Perdete tempo, il vero problema è la prevenzione, è fare le cose rispettando gli assiomi pedagogici giusti e tutto andrà a posto in automatico” (e questo è il motivo ideologico per cui ministri e sottosegretari di sinistra sono stati incapaci di dare un assetto istituzionale al progetto). 
Dunque il progetto Chance ha costituito una irregolarità epistemica disturbante e come tale rigettata in periferia, stigmatizzata non per motivi socio-politici, ma per incompatibilità filosofica.

Qualsiasi sia il punto di vista siamo stati periferici, marginali, esclusi dalle pratiche ordinariamente praticabili. 

Professionisti riflessivi

Sennonché siccome sappiamo parlare e scrivere, siccome abbiamo fatto della professionalità riflessiva una bandiera del progetto, in questi anni ci siamo procurati molti amici, molti dei quali presenti in questa sala che, forse per sano istinto da educatori, forse per simpatia umana, ci hanno ascoltato e seguito e spesso ci hanno aiutato a inquadrare le nostre pratiche in modelli teorici e tendenze riconoscibili dalla comunità scientifica. Se il progetto ha resistito per undici anni molto è dovuto al modo in cui l’accademia in vari modi ci ha sostenuto. 

Ieri, venerdì 20 novembre 2009, mentre si svolgeva la prima giornata di questo convegno, mentre cadeva il 20° anniversario della dichiarazione dei diritti dell’infanzia, è stato approvato il primo atto ufficiale che rende il Progetto Chance una risorsa in qualche modo ordinaria incorporandola in dodici scuole di Napoli e della Provincia situate in zone strategiche dell’esclusione. 
Si tratta di una felice coincidenza. Ma il fatto che si tratti di una coincidenza e non di un appuntamento segnala un problema. 
Nel momento in cui il progetto grazie alla Regione Campania (ma orfano dei precedenti apporti del Comune di Napoli, del MIUR e di altre istituzioni che facevano parte dell’accordo di programma del 1998) diventa ‘normale’ può diventare oggetto di una normalizzazione (ricordate la normalizzazione dei carri armati a Praga?) – involontaria o vendicativa – che ne distrugge la carica trasformativa, le potenzialità di crescita per l’intera scuola. 
Noi siamo convinti che il Progetto Chance possa aiutare una riflessione generale sulle pratiche educative per la cittadinanza che deve coinvolgere la scuola e non solo la scuola, e chiediamo a quelli di voi che potranno farlo un aiuto a mantenere questo senso al progetto. Un aiuto che per tutto quello che si è detto deve essere soprattutto un aiuto di pensiero, un contributo a convalidare un modello di lavoro sulla base di osservazioni, riflessioni, prove. E’ giunto il momento di trasformare la solidarietà umana in prese di posizione basate sui principi pedagogici (che sono quelli che stanno circolando in questa sala) che devono governare la trasformazione istituzionale di questo progetto. 

Un progetto che esalta le pratiche umili ma ricco di dettagli importanti


Chance, come si ripete, non ha da rivendicare alcuna originalità, primogenitura pedagogica o didattica, ma ha da rivendicare con orgoglio la determinazione e la coerenza con cui ha valorizzato le pratiche umili, i dettagli per altri insignificanti. 
Il progetto Chance è stato e deve restare un progetto di cura – della giovane persona in crescita, delle persone che si impegnano al loro fianco – in cui le relazioni primarie fondanti della convivenza sono coltivate fuori dai sentimentalismi e dalle retoriche con un solido impianto organizzativo che consente di gestire la complessità, conservando e valorizzando le risorse umane e professionali. Questa  resta la principale forza del progetto e la sua possibilità – chance - di influire sulla trasformazione di tutte le pratiche educative.
Quello che ci auguriamo è di poter valorizzare questo patrimonio che rischia – principalmente per le debolezze umane da cui tutti siamo affetti – di naufragare in una navigazione che si fa molto più complessa.

Nelle prossime settimane, via mail, diffondiamo un documento di sintesi riguardante le pratiche educative di cittadinanza ispirate al progetto Chance, e speriamo di poter sottoscrivere, con un gruppo di studiosi di varia provenienza disciplinare, un atto di indirizzo riguardante i punti fondanti di queste e su questa base costituire una sorta di osservatorio scientifico permanente che contribuisca alla tenuta pedagogica di questa nuova sfida.


Cesare Moreno

Presidente Associazione Maestri di Strada – ONLUS


Mail: maestridistrada@gmail.com

giovedì 19 novembre 2009

Ho ricevuto una lettera dal futuro

Per motivi tecnici, ma soprattutto per applicare a qualcosa di stupido una mente che non riesce a starsene  a riposo e in attesa, sto riordinando le migliaia di file che affollano il mio computer. Ho ritrovato per caso la lettera aperta che portai con me al primo seminario di formazione, quello che doveva fondare Chance prima ancora che ci fossero le nomine del provveditore e finanziamenti del Comune. E sono stato sorpreso del fatto che non cambierei una virgola quello che c'era scritto, che avevo, come ho, molto chiara la finalità di questo progetto, i mezzi per realizzarlo, ciò che è peculiare del progetto e ciò che non lo è.
A distanza di 11 anni, data la situazione di incertezza e di totale messa in discussione del nostro lavoro, questa lettera mi pare giungere dal futuro, mi piacerebbe poter arrivare a scrivere e pronunciare quelle stesse parole con la stessa speranza. Tra poche ore abbiamo un incontro dove ci verrà comunicato qualcosa che deriva dai vertici dell'ufficio scolastico regionale. Non mi aspetto niente di buono ed è comunque molto triste dover partecipare ad una riunione senza sapere ordine del giorno, senza sapere ancora nulla di quale sarà il nostro ruolo reale;  siamo in una situazione di sudditanza psicologica che ci fa temere la voce del comando anche quando magari ci dice cose buone. Di tutte le cose che si potevano temere e si dovevano temere, questa è la più devastante e ci dice quanto siamo deboli di fronte all'arbitrio, all'assenza di regole, all'inesistenza di garanzie, di istanze di appello. Fin dal secondo anno di attività di Chance abbiamo cercato di portare la metodologia, che qui viene molto semplicemente enunciata, al centro del sistema scolastico quando tutto congiurava a tenerla ai margini. Ed in questi anni sono state assordanti le voci che dicevano: attenti, l'istitutzione vi imbavaglia, vi irrigidisce, insomma si temeva una perdita di libertòe e di creatività derivante da 'lacci e lacciuoli'.  Sono stato sempre polemico verso questo atteggiamento perchè la creatività  e la libertà si espriemono attraveso i vincoli e non al di fuori di essi, ma soprattutto perché i progetti hanno senso se servono ad aprire una strada. Troppi progetti devono invece soddisfare il narcisismo di chi li realizza,  l'indice di gradimento di chi li promuove, ho sempre sostenuto di essere troppo ambizioso e troppo narcisista per accontentarmi di un progetto marginale.  Fin dall'anno 2000 abbiamo lavorato con Marco per farci riconoscere lo statuto di progetto apripista, ma - erano ministri Berlinguer, la Turco e poi DeMAuro  c'è stata semre una gigantesca riserva culturale ma soprattutto una incapacità a capire che ciò che uccide la scuola è l'uniformità.  Berlinguer con il suo 'la scuola di tutti è la scuola di ciascuno' aveva trovato  lo slogan giusto, ma tra lo slogan e le pratiche reali c'era e c'è un abisso.  Dunque noi nn siam riusciti. Il 27 settembre 2000 la montagna partorì il topolin:un protocolo di intesa tra MPI e Affari sociali in cui si diceva di voler sostenere i progetti di inclusione sociale come Chane.  Sembra che quella sia stata l'unica intesa tra i due grandi ministeri che si occupavano di giovani. A detta del sottobosco ministeriale altre intese non c'erano state perche tra i due ministri c'era incompatibiltità di carattere (sic!) .  Chi assisteva a queste scene sapeva che la sedicente sinistra si stava scavando la fossa, perché schiava degli stessi difetti che per anni aveva rimproverato alla DC: logiche settoriali, assenza di strategie, il mercato delle quote in luogo della mediazione politica e culturale.
Della concretezza di questi sforzi di portare Chance nell'ordinario ci sono innumerevoli e concrete tetsimonianze. Tuttavia abbiamo fallito. Dopo anni, nel gennaio 2007 è nato un nuovo topolino: il codice meccanografico che riconosceva la nostra esistenza come scuola, o quasi scuola, infatti si tratta di un codice non esprimibile nei trasferimeti, e tuttvia un atto di nascita in iena regola.
NARI160019 Sezione Sperimentale per il recupero dell’Obbligo Scolastico – Sezione Associata di NARI160008 IPIA "Sannino"  Via Camillo De Meis N.243 NAPOLI - PONTICELLI 

NAMM819024 Sezione Sperimentale per il recupero dell’Obbligo Scolastico – Sezione Associata di NAIC819002 Istituto Comprensivo Baracca - NAPOLI – Vico Tiratoio N.25 

"Presso una o più istituzioni scolastiche (una per ciascuna grado di istruzione obbligatoria) viene istituita una sezione (di indirizzo, per il II grado, di particolare finalità per la primaria e la scuola di I grado) cui è attribuito un codice informatico alfanumerico diverso da quello dell'istituto principale, ma ad esso riconducibile. Sulla "sezione di progetto" non viene sviluppato organico con procedura automatizzata; l'organico è autonomamente determinato dal dirigente scolastico, di concerto con la rete in cui è inserito, e sotto la vigilanza dell'USR. Sulla "sezione di progetto" non viene sviluppata mobilità nel senso che il codice attribuito è opportunamente "sterilizzato" con l' apposizione della caratterizzazione "Codice non esprimibile dal personale docente ed A.T.A.".
Doveva essere il primo passo di una tasformazone istituzionale, ma nessuno degli attori isitituzionali ha mosso un dito per passare dal codice all'esistenza concreta: a distanza di un anno il Comune ci ha mollato in malo modo e poi tutto quello che ne segue ancora.
Tuttavia sono convinto che la responsabilità principale per questa mancata trasformazione sia provenuta dal nostro interno.
 Per anni siamo stati assordati da voci che dicevano che entrare nell'istituzione era pericoloso (come se fossimo stati un gruppetto di volontari e non stipendiati del Ministero!!!)  perché saremmo stati irregimentati. Ed io soprattutto rispondevo che non avevo nessuna paura, che ero già stato nelle stanze del ministero, in quelle dei vertici del provveditorato, in quelle dei vertici comunali e poi anche in quelle regionali e che nessuno mi aveva potuto mettere il guinzaglio, anzi, ne avevo tratto maggiore forza e determinazione. Dunque non dovevamo temere l'altro ma soprattutto noi stessi, la nostra debolezza e difficoltà a tenere una precisa rotta.
Ora siamo arrivati all'appuntamento nelle condizioni peggiori, e stiamo vedendo che il pericolo maggiore non è il guinzaglio ma l'assenza di redini; che il pericolo non sono le carte e le regole ma la loro assenza. Da sempre l'unica vera forza del potere è l'arbitrio e ridurre le persone in stato di sudditanza grazie alla imprevedibilità  dei comportamenti. Visto che usiamo da sempre la metafora della nave ho ricordato ai miei colleghi che una delle situazioni più angoscianti per i marinai all'epoca dei velieri - e magistralmente descritta da Konrad - non è la tempesta ma la calma piatta che rende impossibile ogni azione.
Oggi siamo arrivati all'appuntamento privati persino della testimonianza e del ricordo di una estenuante battaglia condotta e  ci viene ogni giorno rinfacciata come colpa una sconfitta determinata da quegli stessi che ce la rimproverano (vae victis! gridava il barbaro, guai ai vinti: oltre alla sconfitta dovranno subire l'umiliazione): il progetto Chance è fuori della norma, deve essere normalizzato. E dietro il mancato riconoscimento di Chance c'è una cosa molto più grave: l'estraneità e il disconoscimento di un intero continente di esclusi, delle migliaia di giovani che stanno abbandonando la scuola, che perdono il desiderio di crescere e diventare padroni di sé.
In questi anni siamo stati i testimoni scomodi e parlanti di un innominabile ed oscuro delitto commesso contro migliaia di giovani con le modalità dell'esclusione, del lento confinamento in spazi dove non si respira. E siamo stati trattati come loro, confinati nelle aule più malandate, nei sottoscala, a chiedere l'elemosina di uno spazio, a chiedere se per favore potevamo stare nei laboratori, circondati da un'aura di sospetto, incolpati di qualsiasi anomalia si verificasse, tenuti a distanza. Qualsiasi nostra richiesta bollata come ingiusto privilegio: cosa hanno fatto i vostri ragazzi per meritarsi  una merendina! Questo il grido di dolore che si levava dall'Italia degli assessori, delle persone perbene che stanno bene perché se lo meritano. E noi, nonostante fossimo avvocati di ufficio, obbligati ( dalla coscienza e dal civismo) a fare quello che abbiamo fatto e non assoldati per farlo, siamo stati trattati allo spesso modo: come persone che chiedono l'ingiusto privilegio di stare con gli ultimi. Sui nostri decreti di utilizzazione ci sono scritte parole che bruciano: distacco o esonero dall'insegnamento, come un qualsiasi sindacalista, come un qualsiasi portaborse della camera dei deputati, come qualsiasi assessore dell'ultimo paesino che briga per  poter essere esonerato e dedicarsi ai propri elettori.  E anche su questo facciamo a non capirci: queste parole sono scritte senza malizia, senza una intenzione. Bravi! ma è in discussione proprio questo: in dodici anni non si è trovato il modo di adottare una procedura diversa che pure era possibile, allora quelle parole  anche se scritte da un funzionario innocente non sono innocenti e bruciano talmente che alla fine con un tratto di penna sono state eliminate le parole e con loro la funzione importante svolta dalle persone che attraverso quelle parole venivano attivate. "il distacco" è una procedura talmente eccezionale che può essere  esclusa in qualsiasi momento, ed era questo il motivo della nostra battaglia.
Ora ai signori che desiderano normalizzare Chance si presenta questo quadro: la Regione Campania spenderà oltre due milioni di euro per offrire ad alcune centinaia di ragazzi il diritto costituzionale alla scuola, perché  quella prevista per loro e che tutta la pedagogia e la costituzione dice che dovrebbe confrontarsi con la loro individualità e con i bisogni educativi di ciascuno non ha nè i mezzi materiali nè le risorse professionali per poterlo fare. ed in queste circostanze,  da qualche parte, ci sono i loro insegnanti pagati dallo Stato per assolvere al dovere costituzionale di dare la scuola a tutti i cittadini. Ora in una situazione di danno già realizzato, di ferite già inferte ed autoinferte alla persona, si giustifica una integrazione delle risorse e non una sostituzione totale delle stesse. In questo modo si allontana e non si avvicina la possibilità di portare una metodologia al centro dell'attenzione pedagogica e l'esistenza del progetto si fa ancora più precaria.
Dunque dopo dodici anni, quelle parole che davano il là al progetto nel 1998 mi sembrano una meta quasi irraggiungibile e tuttavia  non mi sono ancora arreso ed auguro a me stesso di raggiungere oggi come traguardo quella che dodici anni fa era la linea di partenza: vuol dire che questa volta faremo la 'partenza volante' .

Una lettera dal futuro


Lettera aperta sul progetto CHANCE!

Cesare Moreno per  il primo seminario di formazione 3 luglio 1998
Il progetto Chance costituisce il primo tentativo di realizzare  in una realtà difficile e complessa alcuni principi educativi ed organizzativi  ormai da tempo considerati  fondamentali.
Ci sono termini che diventano rapidamente di moda come rete, sinergie, integrazione  e si consumano ancor prima che la cosa cui si riferiscono sia realizzata.  In questo caso l’impegno che ci stiamo assumendo riguarda proprio la realizzazione di qualcosa di cui da troppo tempo si parla, senza che ci siano mezzi, regole e persone adeguate a realizzarla. Questa volta ci sono tutte le condizioni  e possiamo occuparci del problema reale e non degli impedimenti ad affrontarlo.
Il problema é molto semplice e perciò anche colossale:  é possibile che il mondo adulto, che noi in qualche modo rappresentiamo, possa avere  qualcosa da dire e da insegnare a ragazzi  che per molti motivi hanno già maturato sfiducia ed estraneità rispetto alle istituzioni  e alle persone al punto da aver abbandonato la scuola e di vivere una vita marginale?
La questione va molto oltre il problema scolastico e pone una quantità di interrogativi riguardanti  il nostro modo di vivere, in nostro modo di rapportarci con le generazioni.
Le vie attraverso cui si stabilisce una continuità ed una interazione positiva e creativa tra le generazioni sono per molti versi misteriose. La scuola é uno dei luoghi attraverso cui passano tali misteriose vie e la crisi di questo luogo finisce per essere una spia di una difficoltà di relazione più generale. Il problema é troppo importante per lasciarlo ai soli insegnanti. Ma gli insegnanti sono anche uomini concreti in questo mondo, sono parte non solo professionale della complessa relazione che lega le generazioni.
Troppe volte il nostro lavoro, per motivi insieme complessi e banali, ci impedisce di portare  nell’insegnamento in modo pieno, consapevole e pregnante il nostro essere uomini. Il didattichese ed i linguaggi specialistici sono i segni distintivi di un habitus che finisce per essere corazza estraniante nei confronti dell’altro. Chance si chiama questo progetto e in origine intendeva offrire una Chance a ragazzi in condizioni difficili, in realtà é una Chance eccezionale che si offre ad un gruppo di persone di cimentarsi  con il problema dell’educazione come uomini piuttosto che come ‘impiegati statali’.
Sotto questo aspetto esprimo una gratitudine profonda e sentita a quanti hanno consentito  avviare questo progetto, e metto al primo posto le diverse autorità responsabili  perché hanno saputo dare fiducia  ad un progetto difficile  mobilitando le risorse giuste nel modo giusto. Purtroppo anche nelle relazioni tra le istituzioni e i cittadini, nel rapporto tra istituzioni e gli operatori di queste, per molti motivi, si sono sviluppati rapporti intossicati  da rancori e diffidenze, da permanente spirito rivendicativo che rischia di guastare anche le imprese migliori : si guarda al ritorno pubblicitario che ne ricavano i responsabili, si teme che una impresa positiva possa turbare la geometrica perfezione di una rappresentazione del potere tutta al negativo, si sospetta di fiori all’occhiello che imbellettano abiti logori. Proprio per questo occorre ribadire che esistono modi più ‘economici’ e meno rischiosi di mettersi in mostra e che nessun processo alle intenzioni può modificare la realtà di fatto di una impresa  realmente impegnativa.
Le persone che partecipano a questo esperimento non hanno nulla di più e nulla di meno di migliaia di insegnanti che fanno bene il loro lavoro nell’ordinario e tra mille difficoltà:  sono semplicemente persone che si sono rese disponibili a riparare  un rapporto che, da qualche parte e per responsabilità insieme individuali e collettive, si é guastato. Queste persone dovevano avere una motivazione in più per potersi cimentare in una impresa più difficile dell’ordinario, si tratta di un privilegio, del privilegio di affrontare una impresa difficile e cioè di affrontare un rischio. Un rischio che non é computabile in termini economici o di carriera ma che é enorme sul piano umano, perché la premessa di questo progetto é che ognuno mette in gioco non quattro tecniche didattiche ma la propria umanità. Proprio per questo era necessario che gli operatori potessero scegliersi tra loro, stabilire una relazione positiva ancor prima di operare, era necessario fidarsi l’uno dell’altro, essere disponibili a condividere i rischi. Una delle cose più coraggiose contenute in questo progetto - di cui va dato atto innanzi tutto al Provveditore -  é proprio il modo in cui sono stati reclutati gli insegnanti , che ha valorizzato la relazione personale - ed insieme il rischio e la responsabilità di chi tali scelte ha operato - piuttosto che cercare di sommergerla sotto regole solo apparentemente oggettive: significa che di questo progetto gli operatori rispondono in solido, che nessuna graduatoria, nessuna imposizione ha inquinato la libera scelta di cimentarsi e di rischiare insieme.
Per tutto questo la nostra prima preoccupazione é stata garantire a tutti gli operatori un sostegno di natura umana e relazionale che é dato innanzi tutto dal grande spazio che nella organizzazione quotidiana é assegnato ai momenti di collaborazione ed interazione, spazio che viene strutturato e garantito dalla presenza sistematica di una équipe psicologica che é parte integrante e responsabile del progetto.
La nostra ipotesi di lavoro detta in sintesi estrema é banale: solo un team docente che stia bene con se stesso, che gestisca bene le proprie intelligenze  e le proprie capacità può essere in grado di trasmettere agli altri, per ‘contagio’ prima che per  scienza,  una buona relazione con sé, fiducia nei propri mezzi intellettuali, motivazione  ad apprendere.
I mezzi  e le tecniche  di cui si dispone sono commisurati a questa ipotesi: sono previsti molti momenti di socializzazione  nel territorio, visite guidate, soggiorni di istruzione, gestione comune del tempo libero e tutto quello che potrà servire a ricostituire un legame lacerato tra un gruppo di ragazzi  e la società che li ha generati.
I gruppi di lavoro sono stati costituiti mettendo in primo piano l’attitudine  ad organizzare un curricolo o percorso di conoscenza con i ragazzi e per i ragazzi, piuttosto che la specializzazione disciplinare o il livello di scuola: lavoreranno assieme insegnanti provenienti dalle elementari, dalle medie, dalle superiori, più versati nel ramo artistico o tecnico o letterario o scientifico , ma tutti con caratteristiche polivalenti,   in possesso di ‘competenze trasversali’ - detto in sintesi -  capacità  e volontà di impegnarsi ad insegnare a tutto campo.
Tutto questo é reso possibile anche dalla disponibilità di un adeguato budget che consente di ingaggiare  -quando necessario- specialisti, in questo o quel campo, in grado di trasmettere nel migliore dei modi le indispensabili conoscenze ed abilità  seguendo anche indicazioni ed attitudini dei ragazzi. Per questa parte occorre dare atto al Comune di Napoli (Assessorato alla Dignità) di aver operato le scelte giuste, da un lato impegnando tempestivamente le somme - cosa che nelle altre grandi città italiane non é ancora realizzato- e dall’altro di aver stabilito una vera integrazione con la scuola, cosa che al momento é unica in Italia, dal momento che in genere gli interventi del privato sociale sono realizzati  in modo indipendente seppur coordinato: nel nostro caso tutte le risorse finanziarie e professionali, pur nella distinzione dei ruoli e nella diversa regolamentazione contrattuale, sono gestiti sotto la responsabilità  della scuola presso cui si svolge il progetto.
La valutazione dei risultati avverrà soprattutto in relazione alle capacità di orientare che avrà avuto questo corso: la licenza media é solo la sovrastruttura giuridica di un risultato sostanziale molto più o importante che non riguarda solo il possesso di alcune abilità strumentali,  ma riguarda il proprio orientamento  rispetto alla identità, alle relazioni,  al lavoro. Uno spazio importante, che riguarda oltre la metà delle ore impegnate, riguarda quindi attività che siano in grado di far conoscere e partecipare i ragazzi ad attività, iniziative, imprese, che arricchiscano la gamma delle Chance che ciascuno vede di fronte a sé sottraendolo al determinismo di ambienti che sono culturalmente poveri soprattutto perché offrono percorsi obbligati ed oppressivi.
Oggi 3 luglio, dopo una serie di contatti preliminari, prendiamo un primo contatto con il problema discutendo tra noi a partire da un film. Si tratta di una scelta quasi obbligata perché siamo tutti presi da un’ansia notevole nei confronti del compito, e dobbiamo cercare di fare in modo che l’ansia generi tutto il suo potenziale positivo in termini di responsabilizzazione, di impegno, di comprensione e non diventi invece paralizzante: lavorare su un film é come svolgere una esercitazione  con proiettili a salve che consente di prendere confidenza col campo di battaglia senza farsi male e consente interiorizzare qualche tattica per non farsi male neppure sul campo vero, ma soprattutto serve a dare fiducia che l’intera squadra é in grado di sostenerti e che non sarai solo di fronte alle difficoltà.
La metodologia di condividere e gestire ansie e preoccupazioni, di sostenere continuamente la coesione del gruppo accompagnerà tutto il nostro lavoro, di questo siamo grati alla équipe dei prof Valerio  ed Adamo che ha accettato  - nonostante i tempi stretti e le condizioni non ideali - di condividere il rischio dell’impresa insieme ai docenti e che é stata in grado di metterci in marcia ancora prima che siano definiti nei dettagli tutti i contratti e tutti gli impegni.
Ci auguriamo tutti di poter far un buon lavoro.
Cesare Moreno


lunedì 19 ottobre 2009

Sintassi della responsabilità e dell’irresponsabilità

Rispondere
Responsabile significa rispondere. 
Uno dei motivi per cui noi Maestri di Strada godiamo di un certo credito presso i nostri giovani allievi è che rispondiamo. Rispondiamo di quello che diciamo e facciamo fino in fondo, e rispondiamo alle loro richieste di comprensione e di soccorso. Il nostro codice deontologico è molto severo e comporta stare vicino ai nostri allievi soprattutto quando sono colpiti negli affetti, anche e soprattutto quando i destinatari di quegli affetti magari muoiono ammazzati, magari non sono affatto innocenti di altro sangue versato.
E bisogna insegnare ai giovani a rispondere, a usare le parole nel modo appropriato, saper sviluppare attraverso le parole una trama di pensiero che  consenta loro di rispettare i propri affetti al tempo stesso prendere le distanze da una vita criminale, di convivere per loro disgrazia con la insicurezza delle strade e con la quotidianità del crimine e al tempo stesso cercare di costruirsi una via di uscita. Molte volte la situazione è talmente cruda, talmente bloccata dalle maglie strette di una rete di crimini agiti e subiti che occorrerebbe anche  trovare una dislocazione fisica diversa, ma in tanti anni di lavoro nessuna istituzione si è fatta avanti per chiederci se per caso avessimo avuto necessità di qualcosa in più che non i soli strumenti dell'educazione. Così siamo costretti a tollerare l'intollerabile e a cercare  comunque di restare vivi e di conservare la dignità nostra e quella dei nostri allievi. Così dal nostro osservatorio tutte le volte che vediamo imbarbarirsi il confronto che dovrebbe essere civile  su questioni che toccano direttamente il nostro essere e il nostro lavoro siamo preoccupati. Ogni volta che qualcuno lavora a tracciare linee di fuoco che non possono essere oltrepassate vediamo anche irrigidirsi la sintassi delle relazioni; ogni volta che vediamo usare le parole come armi di invasione, come rumore destinato a occupare uno spazio interiore già saturo di dolore  e di altro rumore siamo preoccupati, e sappiamo che l’eco di queste parole sporche si propaga molto più rapidamente che quello delle parole buone: sappiamo che ci sono orecchie che aspettano di sapere che Saviano è un infame, che Saviano chissà che vuole, che è lui a non valere niente e con lui non valgono niente quelli che lo difendono. Dunque per i nostri giovani noi dobbiamo saper rispondere e saper dipanare i fili contorti delle parole astiose. Per noi è un esercizio quotidiano e dovrebbe essere per tutti quelli che vogliono educare e non semplicemente schierarsi.  Invio quindi ai miei colleghi e a quanti vogliono seguire la strada del paziente sciogliere nodi e grovigli questo mio scritto su una questione calda. So di non essere abbastanza competente per scrivere qualcosa di scientificamente significativo, tuttavia so che questo modo di fare è efficace ed utile per i nostri allievi. Se qualcuno più competente vuole correggere e migliorare questo mio lavoro gliene saremmo tutti molto grati. Uno dei grandi vantaggi della rete è poter cooperare a migliorare il nostro pensiero. Approfittiamone.

Sintassi della responsabilità e dell’irresponsabilità
Mi riferisco alla polemica innestata dall’intervista al capo della mobile. Ho dato un’occhiata sommaria ai commenti e alla risposta di  Marco De Marco direttore del Corriere del Mezzogiorno.
Concordo con quanti dicono che ormai in Italia non è possibile parlare di alcunché senza trovarsi immediatamente ai due lati di una trincea. Ed uno dei modi di creare il clima di scontro e di rissa è di allontanarsi progressivamente dall’oggetto del contendere e accumulare un profluvio di parole che sostengono non la causa, ma la persona che la promuove.
Per disinnescare questo meccanismo secondo me bisogna ritornare sistematicamente all’origine e fermarsi ostinatamente al testo e cercare di dipanare la matassa che intorno ad ogni enunciato verbale si aggroviglia.
Ora provo a far questo esercizio con alcune premesse:

  1. mi attengo al testo reso noto senza riferimenti al fatto che rispecchi in modo fedele ed efficace il punto di vista di chi lo ha prodotto. Quindi da questo momento ogni riferimento a personaggi reali è arbitrario
  2. poiché non parlo più di personaggi reali userò dei nomi fittizi: “autore 1” è chi concede l’intervista, “autore 2” è il giornalista, “personaggio 1” è colui di cui si parla; e poi c’è “la camorra”, che non so proprio se è un personaggio, a me sembra una sorta di coro - alla maniera della tragedia greca - che commenta e sottolinea l’azione, ma in questo caso è una sorta di coro fantasma; quindi è il fantasma1; analogamente il popolo è presente sullo sfondo di tutta l’azione ma non si esprime con voce propria è sempre evocato attraverso le parole dei due autori.

Ogni valutazione che esprimerò riguarda il modo di percepire il messaggio, quindi il modo in cui le parole usate possono evocare in noi talune emozioni
Pisani sbuffa: «Già… questo Gomorra».
- Lui non ce l’ha con Saviano, ma brechtianamente col savianismo. Ricordate la riga arcinota di Brecht nella Vita di Galileo? «Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi».
Partiamo da qui. Pisani, che cosa c’è che non va con Gomorra?
L’autore 2 non dice cosa non va “in Gomorra” ma “con Gomorra”. Quell’uffa ha già detto dalla prima parola che c’è un problema di stomaco, un peso che grava: questo Gomorra. Possiamo immaginarci il tono: questo è un aggettivo dimostrativo che qui viene usato proprio per mostrare l’oggetto che pesa. Se dico ‘Carlo mi ha annoiato’ constato solo, ma se ci aggiungo ‘questo’ lo addito, lo faccio vedere, gli conferisco il peso della presenza. Dunque Gomorra sta proprio qui, sul mio stomaco.
«Il libro ha avuto un peso mediatico eccessivo rispetto al valore che ha per noi addetti ai lavori».
- Saviano ha permesso ai non addetti ai lavori di conoscere una realtà criminale mostruosa.
«E questo è un merito. Ma nel libro ci sono inesattezze».
Per prima cosa notiamo il passaggio alla prima persona plurale. Come dire: non parlo per me, parlo per la categoria. Nel rapido giro di due frasi siamo passati da una situazione impersonale, a una situazione in prima persona, alla prima persona collettiva, una sorta di oggettività condivisa. In più abbiamo anche lo strumento di misura di questo peso: è la bilancia dei mass media e ci viene detto cosa sta sui due piatti della bilancia: Gomorra e ‘noi addetti ai lavori”
Dunque abbiamo il primo intervento del “fantasma 2”, il popolo nella sua veste giudicante di opinione pubblica, e abbiamo un altro personaggio collettivo ‘noi addetti ai lavori”. Ora l’espressione “addetti ai lavori” evoca molte cose e soprattutto il fatto che esistono dei professionisti che sanno cosa fare, e che dall’altra parte ci sono i non addetti ai lavori che per definizione non possono né valutare né giudicare gli addetti. E questo viene confermato subito dopo dal fatto che “nel libro ci sono inesattezze”
Ed è come dire che sul piatto della bilancia il peso esagerato attribuito a Gomorra deriva anche da pesi falsi. Ed è inutile che il giornalista sottolinei che si tratta di un romanzo: le inesattezze restano tali, falsano il peso. Il ruolo delle inesattezze è poi importante perché aiuta a spostare l’attenzione dal libro come oggetto  mediatico all’autore che lo ha prodotto. Qui non ce l’abbiamo più con il peso mediatico ma con l’autore le cui affermazioni di merito confliggono direttamente con le competenze degli addetti ai lavori.
Un’altra questione importante riguarda il soggetto grammaticale della frase: “il libro ha un peso mediatico eccessivo”. Poteva dire: “l’opinione pubblica ha dato un peso eccessivo al libro” ma in questo caso l’attributo della pesantezza di stomaco si trasferiva dal libro al popolo. Quindi è proprio il libro che ha l’attributo del peso. In questo caso usare il libro come soggetto grammaticale serve a rafforzare il soggetto psicologico della frase e dell’intero brano.
Ma fa una vita infame
Anche l’”autore 2” ha spostato l’attenzione dal libro alla persona del “personaggio1”: le sue sofferenze in un certo senso potrebbero giustificare – a posteriori – le inesattezze o almeno indurre a una indulgenza umana visto che una indulgenza tecnica è – a cospetto di addetti ai lavori - improponibile.
Dopo gli accertamenti demmo parere negativo sull’assegnazione della scorta».
L’affermazione è chiara: noi tecnici sappiamo come stanno le cose: abbiamo dato parere sfavorevole. In questo contesto significa anche: la vita infame se la è voluta lui.
- Ma - ripete l’autore2 per due volte - Saviano le minacce le ha avute in pubblico
Resto perplesso quando vedo scortate persone che hanno fatto meno di tantissimi poliziotti, carabinieri, magistrati e giornalisti che combattono la camorra da anni.
Qui ritorniamo in termini più espliciti alla questione del peso: l‘opinione pubblica falsando i pesi e le misure consente che persone che fanno meno abbiamo più peso delle persone che fanno di più.

Il Signore apprezzava gli animali sacrificati da Abele più dei frutti del duro lavoro della terra offerti da Caino.
Giacobbe rivestiva Giuseppe di vesti più belle di quelle dei fratelli; lui faceva il sognatore mentre loro sgobbavano. E il padre non si accorgeva abbastanza di loro.

Dunque siamo nel pieno di un conflitto invidioso potenzialmente distruttivo.

Non ho mai chiesto una scorta. Anche perché non sono mai stato minacciato. Anzi, quando vado a testimoniare gli imputati mi salutano dalle celle».
Siamo di nuovo ai pesi: questa volta il gancio della stadera sta in mano al fantasma01 che indirettamente distribuisce voti di condotta: io non sono minacciato dai criminali, ho rispetto umano e sono ricambiato.
Non ho mai chiesto una scorta.
Qui c’è una paurosa confusione di ruoli e posizioni:
Potrebbe il capo di un esercito chiedere la scorta?
Il capo di un esercito in un certo senso è scortato dal suo stesso ruolo; o meglio una organizzazione militare è caratterizzata tra l’altro dalla sua capacità di sopravvivere come organismo collettivo e quindi anche dalla capacità di riempire rapidamente i vuoti. La deterrenza rispetto all’omicidio singolo è proprio data dalla inutilità dell’omicidio per il suo autore. Un generale può essere ucciso per vendetta privata oppure perché si è disgregata la sua forza armata, ma non può essere ucciso nell’esercizio delle funzioni. Oppure può essere ucciso quando l’aggressore ha colto segni di disgregazione o di possibili effetti devastanti di una uccisione singola. Giuditta esibendo la testa mozzata di Oloferne sciolse d’incanto il vincolo disciplinare degli uomini del terribile generale che si dettero alla fuga. Il generale Dalla Chiesa (aveva anche lui violato il ‘codice deontologico’?) è stato ucciso quando – forse a ragione – i suoi uccisori hanno pensato che potevano trarne profitto; Borsellino e Falcone per lo stesso motivo e sappiamo benissimo che in questi casi la scorta non è servita a niente. Un generale che abbia bisogno di una scorta personale è un generale che ha già perso.
Dunque dire ‘non ho mai chiesto una scorta’ significa mettersi alla pari con un comune cittadino, lasciare nell’ombra il fatto di essere a capo di una organizzazione militare e competere ‘da uomo a uomo’ con l’altro.
- Ma le minacce ci sono state o no?
«Bisognerebbe avere il coraggio di andare a cercare la giusta causa della minaccia».
“Bisognerebbe avere il coraggio”  ritorniamo al motivo dei giusti pesi e dell’invidia: qui c’è qualcuno che viene sopravvalutato perché non si ha il coraggio di andare a valutare i suoi errori, che tanto disturbano gli addetti ai lavori. Qui però si fa un passo in avanti:

la giusta causa della minaccia

“La giusta causa di una minaccia” è un pericoloso ossimoro. Intanto non si tratta di una minaccia generica per una punizione legale o far presenti le conseguenze spiacevoli di proprie azioni (la giusta causa nel licenziamento si riferisce a qualcosa di spiacevole che può avere cause indipendenti da una volontà punitiva e in questo senso è un ossimoro di ‘garanzia’) ma come è possibile una giusta causa in una minaccia alla vita?
La domanda era: ma le minacce in tribunale erano vere, erano meritevoli di scorta?
La risposta adeguata sarebbe stata: “anche in questo caso le valutazioni tecniche hanno dato esito negativo”. Oppure  ‘il personaggio ed il contesto’ non destavano preoccupazione (cosa che sarebbe difficile sostenere).
Niente di tutto questo. La frase esplicitata significa: sì, le minacce ci sono state, ma sono giustificate, anche le minacce se le è chiamate il personaggio 1: c’è una giusta causa per le minacce.
Poniamo che fosse successo l’inverso: che la madre di una delle vittime di camorra avesse gridato in tribunale ‘se esci di galera ti ammazzo con le mie mani’ noi non avremmo detto che c’era una giusta causa della minaccia, avremmo detto che c’era una giusta causa per la rabbia ed il dolore della signora, così come certamente anche i criminali hanno motivi di rabbia, rancore e vendetta, ma mai questi motivi umani degradati potrebbero indurci a qualificare giusta l’azione che ne scaturisce.
Spostare l’aggettivo giusto dalla qualificazione dei sentimenti alla qualificazione dell’azione è un crimine linguistico: significa cambiare proditoriamente il campo semantico, da quello della comprensione umana dei sentimenti e delle emozioni a quello dell’opportunismo sociale.

Alla richiesta di spiegazioni nuovamente il nostro autore N°1 uno si misura personalmente: io rispetto le signore in sottoveste anche se sono criminali (… la moglie era svestita. Io gli ho proposto di far entrare due agenti donne. Lui ha acconsentito e ringraziato).
Sul rispetto umano dei criminali Falcone aveva già detto parole definitive: era stato accusato di portare cannoli ai criminali; lui negò la circostanza di fatto ed aggiunse che lui per rispetto intendeva non ingiuriare o umiliare i criminali arrestati con gesti di disprezzo. “Io li tratto con educazione ma tra loro e me c’è sempre una scrivania”. La scrivania del magistrato che amministra la giustizia.
Molti raccontano di criminali che ‘signorilmente’ si arrendono di fronte ai mitra spianati. Ecco il rispetto e la buona educazione cominciano nel momento in cui sei nelle mie mani e ti ho messo in condizioni di non nuocere. Chi bussa alla porta armato ed in divisa direi che ha il dovere di essere gentile ed educato, e perché può e deve permetterselo, perché è forte e questo è parte della sicurezza di sé e della fiducia nella forza armata che guida. Chi si lascia andare a ingiurie, percosse, atti umilianti non rispetta né se stesso, né la divisa che indossa e in fondo non è in grado di gestire quella forza che pretende di guidare. Dunque di nuovo qui non c’è un confronto da uomo a uomo ma il confronto tra un rappresentante dello Stato e della sua forza armata da un lato e dall’altro un civile indifeso – ancorché scortato - che ha scritto un libro e che è stato tirato dentro una guerra di trincea che non evolve.
Dunque se De Marco – che ha esplicitato il pensiero dell’attore 1 - è disturbato dalle parole ‘non valete niente” dette per nome e cognome (dal personaggio1) tenga presente questo. Dire ai criminali che non valgono niente è un attentato linguistico che può costare molto caro e credo proprio che il personaggio1 sia l’ultimo a non saperlo. Pronunciare quelle parole in casa di chi fa della competizione d’onore, di forza e di valore il suo credo, a chi vive del timore che incute a distanza la sua forza, è una sfida alle “fondamenta semantiche del crimine”. E allora perché non pronunciarle, perché si continua ad avallare - pur nella condanna del crimine - una immagine di grandezza dei criminali, una immagine di ‘eroismo’ criminale, di genialità nel male. Sono ossimori intollerabili o tollerabili solo se si accetta una scissione delle intelligenze che è essa stessa intollerabile. Intelligenza e genialità, se queste espressioni hanno un senso, sono attributi complessi e riguardano contemporaneamente i diversi tipi di intelligenza da quella ‘meccanica’ a quella emotiva e relazionale. Dichiarare ‘intelligente’ ciò che è intriso di rabbia disperata, di violenza senza fine, di istinto di sopraffazione, non è un buon servizio che rendiamo a noi stessi e ci porta a sopravvalutare sistematicamente il crimine e la sua forza e a nutrirlo con raffigurazioni irreali. La colpa più grande del personaggio1 è proprio linguistica perché ha colpito sistematicamente le falsificazioni dei camorristi e dei tanti che pur volendo combattere la camorra non riescono a distinguere la propria sintassi da quella della camorra e adottano atteggiamenti simmetrici piuttosto che atteggiamenti inclusivi che tendono cioè a costruire una trama linguistica e sociale che aiuti l’elaborazione del conflitto piuttosto che la sua ripetizione senza fine.



E poi dare un’immagine eroica della lotta alla criminalità rischia di essere controproducente.
Io non so se quella “e” iniziale sia dovuta all’autore1 o all’autore2. Ma propendo per la seconda ipotesi perché quella congiunzione da sola ci dà il clima: una congiunzione si dice che unisce due parti di un discorso o due elementi di un sintagma. Ma una "e" iniziale che cosa lega?
Se fossimo dei computer faremmo la domanda che sempre ti fa word quando fai un elenco: “vuoi continuare l’elenco precedente o riprendere la numerazione”? Certe volte hai cominciato la numerazione sette pagine prima e il dannato programma se ne ricorda. Invece gli umani sono di memoria corta e non si ricordano di aver cominciato un elenco. Qui l’autore numero due usa una sua piccola astuzia, e si collega all’elenco delle cose che pesano, ai motivi del mal di stomaco per Gomorra.
Ma quell’”e” continua anche un altro possibile elenco: quello dei motivi per cui io posso fare quello che faccio: il mio potere, la mia forza.
Tu inquini la mia acqua dice il lupo
Ma sto più sotto di te? Dice l’agnello
E poi ieri tuo padre ha sparlato di me.
Dice il lupo e lo divora.
Quell’”e” è la voce del potere, è un invito a non fare obiezioni dialettiche: sappi che a qualsiasi tua obiezione io aggiungerò un altro motivo, perché sono più forte e sono io che ho il potere di attribuire le colpe, non i fatti.

Dare una immagine eroica della lotta alla criminalità è controproducente.
 Una affermazione da condividere al millesimo. Ma che c’entra? Dove è il soggetto psicologico della frase? Io che leggo penso che l’opinione pubblica non dovrebbe riferirsi agli eroi. La frase di Brecht ce l’ha con il popolo non con gli eroi. Ce l’ha con chi si fabbrica degli eroi per esimersi dalla battaglia. E se uno si trova a fare l’eroe perché in quel momento è necessario, cosa deve fare? Ritirarsi perché sennò il popolo si corrompe? E chi si trova a fare l’eroe suo malgrado perché alle opposte fazioni conviene servirsi dell’eroe, come fa a sottrarsi? Questa mi pare una bella e solidale domanda a cui non ho risposta. (racconterò un’altra volta la storia di Alì che condannato ingiustamente a morte e messo in  mezzo a vari giochi di potere riuscì a salvarsi)
E di nuovo mi pare che scambiamo le cause con gli effetti, ciò che sta a monte con ciò che sta a valle: sono gli eroi a inquinare il limpido ruscello in cui si abbevera più a monte il popolo o viceversa abbiamo un fiume in piena inquinato di paura, distrazione, impotenza, rispetto al quale qualsiasi rivolo limpido appare come una strana anomalia?
- L’eroe anticamorra dà speranza. E aiuta a sensibilizzare i cittadini sui fenomeni criminali.
«Ma rischia di allontanarli da una collaborazione reale con lo Stato. Noi dobbiamo trasmettere sicurezza. Se un cittadino vede che chi combatte la criminalità per professione ha bisogno di vivere blindato sotto scorta, pensa: “Io, che sono indifeso, non posso fare nulla”».
Dunque siamo tornati al tema iniziale e alla confusione di ruoli iniziale: è diseducativo far vedere che chi combatte la criminalità per professione ha bisogno di vivere blindato. Già ma il personaggio1 non combatte la criminalità per professione questo è il ruolo dell’autore1, che infatti non vive sotto scorta. Il cittadino pensa ‘io che sono indifeso non posso fare nulla’. Ecco dunque finalmente un motivo professionale vero: quello della collaborazione del cittadino indifeso.
Cittadino indifeso.  
Quale è l’assunto? Il cittadino che si sente indifeso collabori, ossia faccia l’eroe. Già perché se il cittadino si sente indifeso e collabora significa che è disponibile a correre un rischio elevato. All’opposto il cittadino che si sente ben protetto si sottintende che sia disponibile a collaborare.  Quindi un cittadino che collabori pur sentendosi indifeso è necessariamente un eroe o peggio un incosciente. La presenza di un eroe protetto quindi mette in evidenza una falla complessiva della pubblica sicurezza. Infatti è proprio così, è proprio vero.
Un personaggio1 non solo vivo, ma attivo, che si fa sentire, che fa l’elenco dei criminali che mancano all’appello delle carceri, è una presenza scomoda innanzi tutto per gli addetti ai lavori che sono continuamente sferzati dall’opinione pubblica che ascolta “uno che pesa troppo”. Allora finalmente capiamo la giusta causa del risentimento del nostro autore 1: il personaggio1 costituisce una sorta di pungolo che non lascia agli addetti ai lavori la possibilità di fare tranquillamente il proprio lavoro. E capiamo anche come i colleghi dell’autore1 siano solidali con lui: si è fatto il portavoce degli addetti ai lavori che mal sopportano la vigilanza dell’opinione pubblica. Dunque come sta accadendo per troppe cose di fronte a chi con la sua testimonianza  di vita solleva un problema vero e serio, la questione non è come affrontare il problema, ma è come mettere a tacere il testimone, screditarlo, fare in modo che la sua voce resti inascoltata. Che poi questo metta  repentaglio la vita del testimone in oggetto si tratta come al solito di un effetto collaterale indesiderato e quindi scusato a priori.
In passato molti hanno pensato che dinamiche di questo tipo derivassero da complotti o da intelligenze con il crimine. Non ce ne è bisogno: il meccanismo dell’invidia, la dinamica espulsiva che attivano in generale i corpi autoreferenziali, la somma delle miserie umane ammazza di più che non un piccolo gruppo di congiurati, è per questo che mentre bisogna difendersi dai disonesti oggi occorre disinnescare sul lungo periodo il modo di produzione che porta ai vertici di organizzazioni importanti persone  tanto irresponsabili e il modo di produzione di  sudditi impotenti che non possono far altro che applaudire un eroe o il suo opposto.  E questo è un compito educativo di chiunque voglia essere responsabile.

Infine vorrei pronunciarmi su due cose: la scorta e il ruolo dell’autore1

La scorta è necessaria per il semplice fatto che se ne è parlato pubblicamente, che abbiamo dato a questa entità “ camorra” una indicazione precisa su come operare per avere un sicuro profitto, le abbiamo fornito il capo sacrificale mozzando il quale essa è sicura di un effetto di potenza. Ora non conta che il personaggio1 sia o no un eroe, se sia o no fastidioso per la Camorra, ora conta il fatto che dai due lati della trincea c’è un accordo su quale sia il simbolo significativo. Questo è di una violenza inaudita, qui ed ora, per il personaggio1 ed è un rischio futuro enorme per lui e per tutti noi. La prima regola infranta per non portare acqua al mulino degli eroismi o peggio dei martiri è la regola del silenzio e della discrezione. Se veramente l’autore 1 voleva combattere l’eroismo doveva tacere rigorosamente sulla questione così come noi cittadini non dovremmo avere alcuna morbosa curiosità per essa, essere un po’ meno fan e un po’ più protagonisti di silenziosi cambiamenti..
Il secondo punto è: ammattendo che l’autore1 che esce da questa intervista corrisponda alla realtà, ossia che esiste veramente un capo della mobile che dice quelle cose e con quelle precise parole (ma so già che bisogna farci la tara) ma se esiste sul serio può svolgere il ruolo assegnatogli?
Rispondo per me: facendo un lavoro infinitamente meno rischioso io non potrei lavorare con una persona che confonde pericolosamente le proprie emozioni con il proprio ruolo; non potrei lavorare con una persona così egocentrica da assumere sistematicamente la propria esperienza come metro di misura dei comportamenti dell’universo mondo.
Non potrei lavorare con una persona che non è consapevole di avere un potere pubblico, che gioca continuamente a misurarsi “da uomo a uomo” quando veste una divisa che dovrebbe garantire a ogni cittadino di potere essere un uomo senza i condizionamenti della violenza.
Ma soprattutto non potrei lavorare con una persona che dimostra un uso della lingua così poco rispettosa della sintassi e della grammatica da indurre sistematicamente se stesso e gli altri a gravi errori di comunicazione dei significati. Che induce gravi confusioni tra ciò che è giusto e ciò che non lo è; che arriva  giustificare  un crimine come la minaccia di morte.
Non potrei lavorare con una persona che non risponde né di se stessa né delle parole che pronuncia perché sono parole intrinsecamente contraddittorie, cariche come sono di emozioni incontrollate e di livori personali. E non so come ad una persona del genere possa darsi alcun incarico di rilievo pubblico.
Se poi i giornalisti di Repubblica amano o disprezzano il capo della mobile in modo incoerente la cosa riguarda loro e non intacca in niente il giudizio autonomo che ognuno di noi dovrebbe sempre farsi quando si toccano questioni che riguardano la vita di tutti e non solo la resistibile carriera di un poliziotto.


La mia foto
Napoli, NA, Italy
Maestro elementare, da undici anni coordina il Progetto Chance per il recupero della dispersione scolastica; è Presidente della ONLUS Maestri di Strada ed in questa veste ha promosso e realizzato numerosi progetti educativi rivolti a giovani emarginati.