mercoledì 15 dicembre 2010

A Carla

Ho scelto di ricordare Carla innanzi tutto a Sondrio, era la sua terra, dove si è formata, dove ci sono quattro nipoti e 13 pronipoti, una sorella e tante persone che l'hanno conosciuta. Questa la lettera che ho letto per loro.

Carla, oggi fa un anno che ci hai lasciati.

Abbiamo continuato a nutrirci di te e delle cose buone che ci hai lasciato, alcune marmellate di pompelmo, pomodorini al naturale, ma soprattutto di tutte le buone parole, dei sentimenti di cui ci hai nutrito per una vita intera. La tua forza c’è ancora tutta e cresce dopo di te come crescono i figli e il nipote che non hai conosciuto.
Hai scritto: Se proprio vogliamo considerare una persona come una pianta, allora le sue radici stanno dentro di essa, e trasportano i succhi nutritivi di coloro che l’hanno generata e educata, cioè "tirata fuori": se le radici sono sufficientemente buone, la pianta si deve alzare ed espandere nel mondo circostante.
Oggi ci siamo riuniti qui per ricordare che tu hai portato lontano,  ad un vasto mondo le tue radici e per dire che tu sei nelle nostre radici perché molti dei presenti, compresi quelli che per età  e storia vengono prima di te sono stati da te educati, aiutati a , come hai scritto tu, "liberarsi dai lacci di ogni ghetto, sociale culturale o etnico che sia.”
Tu hai coltivato come pochi e tue radici e le relazioni, non hai dimenticato niente della tua infanzia e di chi ti ha generato, riconoscevi dentro di te l’eredità di tua madre Anna, tuo padre Michele, tenevi le relazioni con le tue sorelle e anche da loro prendevi esperienze e saggezza. Con il tuo pensiero tagliente, rigoroso proprio perché amorevole, riconoscendo umane debolezze e cadute che in ogni vita ci sono, hai rinsaldato ciò che di buono da ognuno di loro hai preso.
Ma soprattutto ci hai insegnato a gioire della vita. E’ la prima cosa che mi hai detto quando ti ho conosciuta: non sentirti in colpa perché godi della vita.
Molti involontariamente trasmettono un’idea della vita come calvario, come sofferenza necessaria per un radioso futuro, tu dicevi invece che solo godere della vita poteva prepararti ad una buona morte, e avevi solo venti anni! E lo potevi dire perché la tua dose di dolore te la eri presa tutta e per tutta la vita te la sei portata dentro, la morte della persona che più avevi amato e che forse più ti aveva amata in quel tempo: il tuo caro fratello. Ed è questa la cosa più grande che ci hai lasciato, non hai usato la tua afflizione per affliggere altri, ma per aiutare tutti a superare il dolore, a godere la vita di fronte alla crudele e imprevedibile presenza della morte.
Avevi fortunatamente le tue debolezze, sentivi freddo e cercavi calore, temevi i lacci e i vincoli prima ancora di vederli e ti definivi claustrofobica, avevi un discreto pessimismo sulle sorti dell’uomo, avevi paura di restare in debito con qualcuno ed era troppo difficile aiutarti. Quando pensavi a una possibile decadenza fisica pensavi non alla possibilità di ricevere aiuto dai tanti che hai aiutato, ma di doverti pagare un ospizio, e tu, che hai tranquillamente donato tutto il patrimonio ereditato, ti preoccupavi di mettere da parte qualche denaro per il tempo della malattia. Ecco, tu ti curavi di noi senza pensare al tuo futuro, e l’unico calcolo che hai fatto sul futuro lo hai sbagliato: quei soldi non ti sarebbero serviti.
Eri forte, e, come certi profeti che cercavano di tenere lontano da sé questo dono perché ne sentivano e temevano il peso, non volevi essere forte non volevi che ti si riconoscesse come una guida.
Oggi noi approfittando della tua assenza e continuiamo a nutrirci della tua forza, e molte persone che non ti hanno conosciuta ti stanno conoscendo oggi che non ci sei e si stanno nutrendo di te e certamente molte altre ce ne saranno. Ma tra noi che ti abbiamo conosciuta manchi molto, ci manca, e manca a me in particolare, la possibilità di scaldarti quando hai freddo, consolarti in quei rari momenti di scoramento, sostenerti nei rarissimi momenti di stanchezza, di accompagnarti lungo il declino della vecchiaia. E anche questo ci hai insegnato: che una cara assenza e il dolore per essa possono farci diventare migliori.
Grazie.

martedì 9 novembre 2010

Fare scuola in contesti difficili - 2

Percorso di riflessione professionale
e avvicinamento al compito per docenti precari
anche per quelli che potrebbero essere impiegati nel 

 “Programma Operativo Nazionale: “Competenze per lo Sviluppo” - 2007IT051PO007
finanziato con il Fondo Sociale Europeo Annualità 2010/2011.
Interventi integrati rivolti alle Istituzioni scolastiche della Regione Campania,
per promuovere il successo scolastico
con particolare attenzione a tutte le categorie a rischio di marginalità sociale.”


martedì 21 settembre 2010

Niente di nuovo sul fronte orientale -16 settembre 2010 -



La periferia orientale di Napoli, un tempo sede dell'industria pesante e manifatturiera, oggi è sede di numerosi istituti di istruzione superiore che ospitano i giovani delle tre periferie, San Giovanni, Barra Ponticelli. 
Dopo aver detenuto il record dell'analfabetismo i tre quartieri hanno avuto il record della dispersione scolastica nelle scuole medie, oggi hanno il record della dispersione alle scuole superiori, Il problema quindi è stato promosso. Qui una descrizione del fenomeno allo 'stato nascente'

Fuochi d'artificio 
A mezzanotte del 31 dicembre del 1980, invece di farmi stordire dai botti dei miei rumorosi vicini di San Giovanni, salii sul Vesuvio a godermi la vista. Era una notte chiara, spazzata dal vento, la penisola Sorrentina, le isole, i monti del casertano erano scolpiti nel cielo blu, luci bianche e gialle disegnavano la mappa dei paesoni della provincia tra Napoli e Caserta da un lato, quella dell’agro Sarnese Nocerino dall’altro. La conurbazione Napoli Caserta Salerno era visibile in tutto il suo scassato intrico, senza alcuna possibilità di indovinare un disegno, né intorno ad un fiume, né intorno ad un asse viario, né lungo un crinale montuoso: solo lungo gli assi della più assoluta anarchia.
I botti non hanno un vero inizio: impazienti di tutta la provincia fanno esplodere i loro potenti petardi e in distanza si intravedono lampi che improvvisamente illuminano palazzi colorati, vicoli bui. Quando i fuochi cominciano ad intensificarsi si realizza uno strano fenomeno: sembra che ci siano dei ‘fuochisti’ che si sincronizzano, anzi diverse squadre lo fanno in alternanza cosicché appaiono nel corpo di quella conurbazione incoerente dei veri e propri movimenti, come di un grande animale, un dragone che avanza divincolandosi. A mezzanotte, quando l’intensità cresce, si stabilisce un vero e proprio ritmo, una sorta di respiro un po’ affannoso che il grande animale segnala con l’accensione intermittente di lunghe catene luminose lungo le creste della sua corazza. E mentre in terra si delinea questo fantastico disegno in cielo sale una nebbia azzurrina e disegna specularmente alla conurbazione una nuvola che si espande minacciosa su di essa rendendola via via sempre più confusa con lo sfondo nero della notte.
Fu allora che ebbi la visione precisa di come sia il pensiero e lo sguardo dell’osservatore a dare una forma a fenomeni che di per sé non l’hanno e come sia la parola che ne riferisce a conferire un senso a ciò che non lo ha.

Una mattinata di ordinaria paura
Il 16 settembre 2010 avevo appuntamento con una squadra di 14 volontari che dovevano incontrare 206 giovani che mettevano piede per la prima volta nell’Istituto Professionale Sannino-Petriccione. Alcuni di questi erano veterani, altri incontrati e preparati nei giorni precedenti, altri appena collaudati il giorno precedente, altri ancora arrivati solo ora attraverso le catene ‘fiduciarie’ che ancora esistono. Faccio per distribuire le coppie e constato che non ne ho a sufficienza, qualcuno deve restare solo. Allora un bel numero, tranne una giovanissima psicologa, cercano di sottrarsi al restare soli: hanno paura ed è molto bello ed importante che si sia stabilito tra noi un clima per cui nessuno esita a dichiarare nel modo più semplice e più tranquillo la propria paura. La mia paura in realtà è moltiplicata per quattordici e anche per ventotto: temo per come si realizzerà l’impatto , per come reagiranno in caso di ’insuccesso’ altri 14 docenti nei confronti dei quali abbiamo preso questo azzardo. Poi vedo Sabrina, l’aspetto minuto e gentile di una ragazzina di scuola media, infiltrata tra i grandi delle superiori – in realtà una laureata in psicologia - che incoraggia la sua amica che opera quotidianamente al SERT - e quindi non ha certo paura di confrontarsi con realtà difficili - e prendo i suoi incoraggiamenti anche per me. Sia chiaro che non sono un incosciente, in un certo senso sono uno specialista del primo impatto, ho discusso con i docenti della scuola proprio spiegando che nella relazione con i nuovi allievi è importante il primo minuto della prima ora del primo giorno di scuola. Una parola sbagliata, uno sguardo traverso, un tono eccessivo hanno conseguenze tremende. L’imprinting degli animali è direttamente proporzionale alla precarietà della loro vita, un animale da preda deve imparare a riconoscere la madre in pochi minuti perché entro pochi minuti dovrà anche imparare a fuggire. Un uomo impaurito dalla vita, impiega frazioni di secondo classificare gli sconosciuti che incontra in un ambiente sconosciuto come amici o nemici. Dunque siamo preparati, abbiamo detto quali sono le parole da non pronunciare, i gesti da non compiere, le parole da dire, le posture da assumere. Il fatto che i giovani volontari abbiano studiato psicologia o abbiano una esperienza da educatori ci aiuta molto, capiscono a volo quanto siano importanti queste cose, quanti significati si leggono dietro gesti elementari. E nonostante tutto, nonostante ripetute esperienze positive, c’è la paura del primo impatto e la paura della paura: sentire che possiamo aver sopravvalutato noi stessi, che questa volta non ce la faremo. Dunque il primo istante è critico anche per noi. Ma viene stemperato dal fatto che incontriamo i nostri ragazzi nella grande aula del teatro, che il gruppetto che si forma intorno alla coppia di giovani operatori sembra proteggerli e proteggersi nella vastità anonima di un anfiteatro da 500 posti. Il tragitto dal teatro alla classe cementerà attraverso il cammino comune negli ampli e deserti corridoi questa prima conoscenza. Dunque il primo passo è stato fatto senza danno; come spesso accade il primo passo è silenzioso da entrambe le parti ed è un bene perché le parole sono fonte di equivoci.
Dall’altro lato, tra i ragazzi, si leggevano sguardi altrettanto spaventati. Il nostro compito era di riuscire a dare un nome a quella paura, a leggere un disegno in quel quadro incoerente, aiutare i giovani a trovare un senso in quella loro presenza, insieme, in quella squallida aula.
Dunque un primo gruppo di allievi se ne sta seduto nei banchi, immobili, abbarbicati fisicamente al banco come se costituisse uno scudo, sembrano i più disciplinati, in realtà sono i più impauriti, aspettano con terrore l’evolversi degli eventi. Quelli che hanno un banco individuale lo inclinano lievemente verso di sé ed accentuano questa idea di fortificazione. I giovani di questo tipo, nei casi che ho osservato direttamente, sono nelle ultime file; poi c’è una fila più mobile, che si appoggia al banco come gli atleti ai blocchi di partenza, stanno leggermente inclinati e di sbieco pronti a scattare, aspettano l’occasione per partecipare a qualche ‘fuoco d’artificio’; infine c’è la prima linea, che nel banco non ci sta , che lancia continui attacchi a chi è in posizione di autorità, ma in realtà anche al gruppo: non appena il gruppo sembra disegnare qualcosa, costruire un discorso, loro rompono, agiscono la condizione fisica della instabilità, della necessità di fuga.
Ben presto questi attacchi cominciano ad indirizzarsi in una unica direzione: uscire dalla classe. Questa convergenza viene creata dalle nostre stesse reazioni: alla prima volta che proviamo a dire che non è possibile uscire, che non è giusto uscire quando si sta sviluppando una conversazione, comincia il fuoco di fila, ossia tutta la fila spara nella stessa direzione; a questo punto è raggiunto il primo involontario obiettivo di coalizzare il piccolo gruppo. Comincia così un andirivieni verso la porta: uscite e rapidi rientri, incontri tra gruppi di fuoriusciti delle altre classi; molti si conoscono, molti altri si riconoscono: lo stare fuori in quel modo è il segno distintivo di uno stesso disagio, di uno stesso modo di non affrontarlo; incomincia a delinearsi la sagoma del dragone che ben presto percorrerà i corridoi della scuola.
Questa banda si aggira nel vasto e squallido corridoio alla ricerca di qualcosa, si muove come una muta di lupi, in testa quelli più audaci ed aggressivi dietro a grappolo quelli via via più timidi, l’estensione orizzontale della fila compensa la scarsa audacia; ultimi, in ordine sparso, quelli che non riescono ad intrupparsi, che non hanno neppure la capacità di riconoscersi nell'orda, che aspettano la mischia per esprimersi in modo anarchico.
Il gruppo si aggira senza meta nel corridoio finché individua un filo elettrico penzolante. Questo diventa l’occasione per una prova di ardimento: alcuni lo scavalcano, altri ci passano sotto, è una sfida da raccogliere. Il gioco finisce quando uno dei capi naturali dice: e in questa scuola insegnano gli impianti elettrici? ( in realtà si tratta di uncavo telefonico probabilmente inattivo, e loro lo hanno capito bene, ma conveniva che esso fosse rappresentato come un pericoloso cavo carico di elettricità; chi scrive, tra la costernazione degli astanti che vedevano venir meno un elemento scenico importante, lo ha 'rimesso a posto' ancorandolo ad un grosso chiodo piantato nel muro in tempi remoti per quello scopo, ma che con l'usura del tempo si era messo a testa in giù liberando il cavo dal suo ancoraggio) Ora la banda è diventata un “movimento politico”, ha individuato il motivo ideologico che la può rappresentare: la scuola non funziona come dovrebbe. Un altro ragazzo più costruttivo, manipolando con disprezzo una maniglia rotta, spingendo col piede un termosifone traballante, scuotendo una porta squinternata dice: ma poi le cose rotte le aggiustano i ragazzi?
Un insegnante della terza ora trova la classe completamente vuota, tenta invano di farli rientrare in classe, poi scende a chiamare il preside. Si sentono i primi commenti aggressivi e parolacce mormorate al suo indirizzo. Il preside arriva dopo poco facendosi precedere da una ingiunzione fatta con voce squillante: tutti in classe. Nello spazio di tempo che c’è tra il sentire la sua voce e il salire i tre gradini che consentono alla sua testa di emergere dalla tromba delle scale, la banda è dispersa e tutti sono ritornati nei banchi e siedono in silenzio. Il preside scompare in una delle classi e quelli che si sono seduti si guadano smarriti intorno, orfani di un incontro ravvicinato con la massima autorità.

Nello spazio di poche ore ha preso corpo un disegno: c’è un corridoio grande come una piazza d’armi, dei bagni fatiscenti e maleodoranti che sono terra di nessuno dove si incontrano i fuggitivi, gli uomini in fuga, che si riconoscono attraverso i segnali che sono quelli delle adunate allo stadio, delle risse, delle scorribande nel quartiere e ci sono quelli che stanno nel banco e che intavolano qualche interazione con i docenti. Lo spazio del corridoio è lo spazio delle emozioni agite, del dragone mostruoso che dando senso a incoerenti movimenti divora il tempo delle persone, lo spazio della classe ha un disegno semplice e precostituito che non è in grado di contenere il prorompere di tutto questo e che sarà ben presto sopraffatto o ridotto a residuo infelice di un grande gruppo che poteva essere vitale.

Chi ha paura di chi
Quelli seduti nei banchi hanno paura dell’aggressività degli altri, sentono oscuramente che ci sono ragazzi abituati ad una vita violenta, che aggrediscono senza motivo apparente, che mettono tutto sul piano dell’aggressività; hanno anche paura dell‘aggressività istituzionale ossia della possibilità che l’istituzione li punisca e li privi di qualcosa di importante. Alcuni di questi ragazzi potrebbero smettere di venire a scuola proprio perché per loro è troppo penoso reggere questa situazione, la loro mente è troppo occupata in attività di difesa per potersi impegnare nell’apprendimento.
Quelli della linea di attacco sono convinti che in quel posto loro non potranno mai riuscire, che nel gioco della scuola usciranno sempre sconfitti, la loro attività è quindi duplice: stare rigorosamente fuori di quel gioco, non accettare alcuna offerta di collaborazione, attaccare sistematicamente i custodi e i garanti di quel gioco e possibilmente far crollare l’intera organizzazione. Nel momento in cui si dimostri la fragilità è l’incapacità dell’istituzione, viene meno lo scenario che li vedrebbe sconfitti. Al tempo stesso restano delusi dall’assenza di un valido interlocutore a cui opporsi. Molto volentieri quindi giocano a guardie e ladri, ossia recitano il copione della distruzione per poi recitare quello della ricostruzione: questi ragazzi hanno un bisogno ossessivo dell’autorità, che questa ci sia, che si faccia sentire cosicchè loro possano recitare l'unica parte che conoscono: quella del demolitore. Una situazione riflessiva, un cerchio in cui scambiare parole alla pari è per loro fortemente angosciante, li mette dentro un gioco che non conoscono e dagli esiti per loro imprevedibili e minacciosi.
E di cosa abbiamo paura noi? Di molte cose assieme, quella più elementare, quella che accomuna forse tutti coloro che devono stabilire relazioni con gruppi umani in situazioni potenzialmente conflittuali è l’esplosione della violenza. Per violenza non intendo necessariamente menare le mani, ma intendo la distruzione sistematica di ogni ipotesi di discorso, l’esplosione incontrollata di pulsioni elementari e soprattutto il loro effetto contagioso nella massa. Ognuno di noi sente in modo più o meno oscuro, che l’esplosione della violenza ci lascia inermi, impossibilitati ad agire se non agendo noi stessi la violenza ed è questo soprattutto che temiamo: la destrutturazione del nostro io in una situazione caotica. Noi non abbiamo paura di poter subire una qualche offesa fisica, una qualche offesa morale, ma abbiamo soprattutto paura della nostra reazione, della possibilità di perdere il contegno, cioè di perdere il controllo di una identità faticosamente costruita.
La seconda paura che amplifica questa è specifica di chi sta tentando una operazione nuova e al limite: perdere il controllo di sé dì significa anche perdere ogni credibilità rispetto alla propria professionalità e compromettere il gruppo professionale di cui si è parte. Dunque la paura di chi tenta azioni audaci è più forte degli altri.
La terza paura riguarda il proprio sapere disciplinare, ossia il fatto che nel dilagare della violenza non ci sia alcuno spazio, per la trasmissione del proprio specifico sapere, e quindi di perdere la propria ragion d'essere nel contesto scolastico.
Dunque intorno a questo incontro si addensano nubi minacciose ed è molto difficile riuscire a vincere queste paure e a sviluppare una attività positiva.

Risolvere un problema essendo parte del problema
La prima regola di fonte a un problema complesso ed intricato e nel quale i solutori fanno parte del problema è scomporre il problema, affondarlo a piccole dosi nello spazio e nel tempo. Gli operatori possono essere preparati ed addestrati in anticipo, possono sperimentare in situazioni diverse e a fianco di veterani le soluzioni ed i modi di agire. La preparazione deve essere di tipo teorico, cioè avere una descrizione sufficientemente accurata del fenomeno che si sta affrontando, avere una interpretazione plausibile. Senza un quadro teorico gli operatori sono preda di stereotipi sociali, di concetti presi dal linguaggio comune che li rendono indifesi rispetto a evoluzioni complesse dei fenomeni. La preparazione deve essere anche di tipo addestrativo, ossia essere finalizzata ad avere la destrezza e la prontezza di risposte immediate e non riflesse di fronte agli imprevisti. La destrezza si raggiunge solo facendo ripetuta esperienza di situazioni simili e imparando a dare in modo automatico risposte sufficientemente appropriate. Per addestrarsi serve necessariamente operare per un certo tempo a fianco di una persona esperta, sicura di sé, sicura di saper fronteggiare gli imprevisti.
Il secondo punto di forza è operare in gruppo: il gruppo conferisce forza all’individuo, un gruppo può offrire risposte differenziate può facilitare a ciascun membro il compito di riflettere, di pensare rapidamente ad una soluzione senza essere troppo pressato, consente una alternanza tra momenti caldi e freddi. Molti pensano al gruppo solo come alla moltiplicazione delle forze, si tratta invece di una integrazione, della possibilità di differenziarsi nell’azione comune e non la frammentazione dell’azione in tanti piccoli fronti.
Una volta coinvolti nell’azione è necessario agire avendo sempre presente che il nero non è mai così nero come sembra, che esistono sempre zone che ad una osservazione più attenta appaiono più chiare. Un adolescente che ti aggredisce dicendo che l’unica frazione che conosce è contenuta nella frase “ci hai scassato tre quarti di c.” sta anche segnalando che lui qualcosa delle frazioni sa, e che però vuole mantenersi in un suo linguaggio. Riuscire a cogliere a volo questi piccoli segnali di apertura è il difficile lavoro di aprire dei canali di dialogo. Per poter cogliere questi segnali è assolutamente indispensabile sapersi mettere dal punto di vista dell’altro, capire come l’altro, dal suo punto di vista, legge la situazione. Questo è possibile solo attraverso una capacità empatica, ossia riconoscendo che ciò che vivono i nostri interlocutori lo abbiamo vissuto e lo viviamo in forme diverse anche noi.
Un docente ed un educatore che si senta “diverso all’origine” dai nostri adolescenti aggressivi non potrà mai dialogare con loro. ‘Diverso all’origine’ significa ritenersi quasi di un’altra specie, dire a se stessi – e talora urlare pubblicamente – “io non sono come loro”, mette una distanza che nessuna buona maniera e nessuna accoglienza potrà colmare. Pensare che “alla fine” siamo diversi significa essere consapevoli del fatto che c’è un cammino difficile da percorrere e che il fatto di averlo in parte compiuto non ci autorizza a sentirci irrimediabilmente superiori. Questo tipo di umiltà non ci si può limitare a dichiararla come intercalare di un discorso politicamente corretto, ma occorre averla vissuta attraverso la sofferenza dell’insuccesso, attraverso il travaglio del desiderio di fuga e di resa, solo se abbiamo esplorato - e continuiamo ad esplorare - le nostre parti deboli e paurose, le nostre parti aggressive, invidiose, gelose, possiamo capire - cioè leggere e considerare - le paure, le gelosie, le aggressioni degli altri. Deriva da questo la necessità di disporre in un progetto educativo della possibilità di riflettere in gruppo sulle proprie emozioni sotto la guida di professionisti che abbiano fatto dell’esplorazione della psiche la propria competenza.
Ed è anche necessario salire su un monte durante una notte buia per vedere da lontano come si muove il drago che vive imprigionato nell’informe intrico delle relazioni che si realizzano in una comunità educativa. Fuor di metafora è necessario per ciascuno dare un senso alle proprie azioni e ai propri movimenti che sono assorbiti ed asserviti all’incoerente movimento di giovani adolescenti disagiati. Una guida riflessiva per il gruppo serve a dare un senso, a costruire una storia, ad avere memoria e coscienza delle proprie azioni. Senza di questo un gruppo di lavoro è condannato a ripetere infinite volte gli stessi errori. Così come cresce l’individuo così deve crescere il gruppo attraverso una propria storia evolutiva e attraverso una propria memoria una propria identità.

Questa regola riguarda tutte le organizzazioni complesse. Una organizzazione complessa non può essere ricostruita solo sulla base di protocolli, regole, competenze. Per ereditare un patrimonio professionale è necessaria una lunga comune frequentazione. E’ possibile costruire una organizzazione con caratteristiche esteriori simili, ma è necessario cominciare una nuova storia, costruire una nuova memoria, e tuttavia possiamo assumere una lezione dalle esperienze precedenti, facendo in modo che la necessità di tutelate la storia e l’identità di un gruppo non costituisca un credo identitario dei suoi membri ma una necessità professionale riconosciuta dai committenti istituzionali di un progetto.

Smentire il futuro
In questo momento in oltre cento istituti professionali e tecnici della provincia di Napoli cominciano o ricominciano il loro primo anno di scuola superiore in 7-800 classi circa 20-24.000 giovani. Di questi 7-8000 sono destinati a non passare al secondo anno; molti di loro smetteranno di frequentare entro il mese di dicembre. Moltissimi passeranno le loro ore uscendo sistematicamente dall’aula, creando situazioni di disturbo, urlando nei corridoi, fumando nei bagni, aggredendo verbalmente, talora fisicamente, i docenti. Il loro movimento incoerente visto da lontano disegna un gigantesco mostro che divora intelligenza e vitalità. Intorno a loro migliaia di insegnanti soffrono senza poter intervenire in modo efficace, centinaia di dirigenti scolastici si barcamenano senza poter adottare strategie utili.
Io penso che bisogna dare una risposta al problema nella sua interezza, costruirla con pazienza insieme, sapendo che si tratta di un problema difficile di cui nessuno ha la soluzione e su cui tutti possiamo intervenire se abbiamo pazienza e se ci dedichiamo facendo i piccoli passi necessari. Si può cominciare da un punto qualsiasi, si può cominciare lavorando su dieci classi invece che su 800 ma bisogna avere una strategia per 800 classi, al di fuori di questo fare dei progetti ancora sperimentali, esemplari, di bandiera significa solo imbrogliare se stessi.

martedì 14 settembre 2010

Un anno scolastico buono

Ricevo da Nicola Magliulo queste citazioni.  Buon anno scolastico a tutti.
Ma esiste una anno scolastico buono, ossia organizzato in modo sensato? 


Passeggiate (1913)
"Una delle maggiori e più pestifere superstizioni delle scuole italiane è la lunghezza dell'orario. Più gli scolari sono costretti a rimanere nelle aule scolastiche e meno profittano. Chi non sa che, al mattino, la terza ora di insegnamento è inservibile?
Che l'insegnante vede occhi stanchi, gambe e braccia irrequiete, disattenzione generale? Peggio nelle ore pomeridiane. Vi sono degli istituti tecnici dove, in certe classi, si va dalle due alla cinque e magari alle sei, attraverso un caleidoscopio di insegnanti, i quali sI succedono dinanzi a una scolaresca sempre più disattenta ed irrequieta.
La scuola educativa, sana, fortificante dovrebbe tenersi solo al mattino: tre ore con qualche intervallo di riposo; nel qual caso anche la terza ora dovrebbe essere profittevole. Il pomeriggio dovrebbe essere dedicato dai giovani ai compiti, allo studio indipendente, in parte agli esercizi fisici ed alle passeggiate".
Luigi Einaudi (economista e presidente della Repubblica, 1874-1961)
L'arte di perdere tempo (1966)
"Quando finalmente si saprà tutta la verità su quel tipo di insegnamento (temo però che quel giorno sia ancora lontano), l'umanità si troverà di fronte a una gigantesca mistificazione e a una mostruosa impostura. Finalmente si scoprirà che i professori blaterano e gli allievi non ascoltano; che nessuno fa niente; che l'allievo imbroglia e l'insegnante si lascia imbrogliare; che, stringi stringi, trenta ore di studio coprirebbero comodamente il contenuto di tre trimestri scolastici.
Nella sua forma attuale la scuola è un'eccellente preparazione. alla vita impiegatizia, a quell'arte di perdere tempo facendo finta di lavorare che contraddistingue i burocrati. Quell'indottrinamento diluito, ripetitivo, apatico e sempre uguale è esattamente il contrario di come dovrebbe essere un insegnamento degno del suo nome: conciso, intenso, stimolante".
Witold Gombrowicz (scrittore polacco, 1904-1969)

 Il contratto perverso (2008)
"Alla scuola, molti ragazzi sono disposti a dare il corpo, non l'anima. In pochi anni, ad iniziare dalla scuola media, quasi tutti imparano i trucchi del mestiere: i tempi morti per rilassarsi, le finte e le strategie per non essere notati ("gli imboscati"), le infinite tattiche di evasione ed elusione dei cosiddetti "doveri", come quando fanno il lavoro di gruppo che in effetti dà loro la possibilità di copiare o di lasciar fare agli altri. Anche se tutti non lo amano, gli studenti si aggrappano al loro contratto, perché dà loro una identità sociale, perché li protegge da un eccessivo coinvolgimento personale. E vi si aggrappano al punto che non vogliono cambiarlo, tanto vi si sono abituati: a giocare con le aspettative dell'istituzione e degli insegnanti, a inventare nuove regole del gioco, a manipolare le modalità di valutazione. Ogni innovazione che attenta, direttamente o indirettamente, al mestiere di studente è mal accetta, perché li disarma, li priva dei meccanismi di difesa che generazioni di studenti hanno costruito e si sono tramandati.
Differenziare o rendere flessibile - come vuole l'autonomia - i tempi e gli orari in funzione del processo progettuale non viene accettato, perché i ragazzi sanno che è più facile sopravvivere quando la materia e l'insegnante cambiano ogni tre quarti d'ora: si può arrivare alla fine di una settimana di trenta ore dopo aver fatto per altrettante volte il "minimo decente", mentre sarebbero del tutto impossibilitati a fare la stessa operazione se fossero costretti ad impegnarsi nella stessa attività per parecchie ore di seguito".
 Rosario Drago (ispettore scolastico) 
Un assurdo didattico (1906)
"Uomini colti, insegnanti, studiosi di pedagogia, che respingerebbero con terrore la proposta di impegnarsi, fosse anche solo per una settimana, ad assistere a tre conferenze al giorno, l'una di seguito all'altra, anche sui soggetti che maggiormente li interessassero, non sembrano vedere l'assurdità didattica, igienica e psicologica di ordinamenti scolastici che costringono i ragazzi dai dieci ai diciotto anni a rimanere inchiodati, in media per cinque ore al giorno, durante anni interi, sui banchi della scuola, come se non vi fossero altri mezzi per ottenere gli scopi che così si raggiungono o, per parlar più esattamente, gli scopi che si crede così di raggiungere, poiché il risultato finale di questo sistema di coltura intensiva - troppo simile al sistema di nutrizione posto barbaramente in opera nelle campagne della bassa Lombardia per ottenere i prelibati fegati d'oca - si riduce troppo spesso a questo, di far nascere in tutti gli alunni, e spesso nei più intelligenti, una tale
ripugnanza a tutto ciò che sa di scuola o che abbia attinenza a ciò che vi si insegna, da far quasi ritenere una fortuna che nei programmi scolastici si sia data tanta parte a ciò che non val la pena di essere saputo: così almeno lo scolaro, per quanto esca dalla scuola sfornito della più parte delle cognizioni che meglio servirebbero per l'adempimento delle sue funzioni di cittadino e di padre di famiglia e per l'esercizio della professione a cui si aspira, non ne esce almeno spoglio anche di qualunque desiderio e impulso a procurarsele per proprio conto non appena ne riconosce l'utilità".
Giovanni Vailati (matematico, 1863-1909)

Riscoprire l'adulto in ogni adolescente (2007)
In un' intervista rilasciata subito dopo la pubblicazione del libro The Case Against Adolescence: Rediscovering the Adult in Every Teen (2007), Epstein ha affermato: "L'adolescenza è un'estensione artificiale dell'infanzia. In qualsiasi specie di mammiferi, una volta raggiunta la pubertà si agisce da adulti. Nelle società preindustriali quelli che chiamiamo adolescenti erano integrati nella società come adulti responsabili.
E' stata la nostra cultura ad estendere artificialmente l'infanzia, in primo luogo attraverso il sistema scolastico e le restrizioni nei confronti del lavoro. I due sistemi si sono sviluppati parallelamente verso la fine del 1800. Le leggi sull'istruzione obbligatoria sono andate di pari passo con l'innalzamento dell'età per l'accesso al lavoro. Regole nate soprattuttio contro gli abusi e lo sfruttamento minorile nelle fabbriche nate con la rivoluzione industriale. Questi sistemi hanno sempre più isolato i teenagers dagli adulti.
Ma oggi questi sistemi non funzionano più e non hanno più ragion d'essere. Di fronte a un'istruzione che si prolunga per tutta la vita, l'apprendimento dopo la pubertà deve essere combinato in modi interessanti e creativi con il lavoro. I nostri adolescenti sono estremamente capaci, per certi aspetti molto più degli adulti, per cui è deleterio perseguire la loro infantilizzazione con il protrarsi della scolarizzazione obbligatoria, che li mantiene fino oltre la maggior età in condizioni di sorveglianza e controllo da parte della scuola, lontani dagli ambienti autentici di lavoro, dove invece potrebbero sviluppare responsabilità e autonomia. Dobbiamo riscoprire l'adulto in ogni adolescente, dando ai giovani autonomia e responsabilità da adulti !
Robert Epstein (psicologo americano, n. 1953) 

L'edificio scolastico dovrebbe essere centro di ritrovo dei professori e degli alunni nelle ore libere (1908)
L'edificio scolastico è, vorremmo dire, esso stesso un potente mezzo di educazione; ed è ridicolo buffoneggiare colle riforme dei programmi, dei metodi, degli orari, quando in umili stamberghe, senza luce e senza aria, si pretende educare quella tal mens sana in corpore sano, che in ogni solennità più o meno ufficiale è decantata come fine nobilissimo della scuola.
Nelle città e nelle cittaduzze di provincia in cui la scuola media rappresenta il focolare unico della cultura, l'edificio scolastico dovrebbe essere il centro di ritrovo dei professori e degli alunni nelle ore libere, qualcosa di intermedio tra il circolo di trattenimento e il dopo scuola; e in esso non dovrebbe mancar mai né una sala di lettura aperta al pubblico, in cui i genitori fossero invogliati a trovarsi a contatto coi professori, né un teatrino per rappresentazioni drammatiche, di cui gli alunni dovessero liberamente disporre come di cosa propria; come dovrebbero avere il libero uso anche della palestra ginnastica.
Gaetano Salvemini (storico e uomo politico, 1873-1957)

 Troppe ore (1925)
"Altro difetto grave delle scuole tecniche comuni, come del resto di tutte le nostre secondarie, è quello della lunghezza degli orari complessivi. Le ventiquattro e mezza, ventisei e mezza, ventisette e mezza ore settimanali per classe delle scuole di tipo comune, le ventinove, trenta e mezza, trentuna delle scuole con indirizzo speciale, che diventano ventisei e mezza, ventotto e mezza fino a trentatre, se vi si aggiunge l'orario di educazione fisica, sono troppe.
Sono enormemente troppe quando si consideri che a queste 5, 6 ore quotidiane di permanenza in classe se ne debbono aggiungere almeno altre due o tre ore di occupazione domestica per la preparazione delle lezioni e la esecuzione dei compiti, il cui fardello per il sistema delle paratie stagne dell'insegnamento per materia, grava giorno per giorno pesantissimo sulle gracili spalle dei nostri scolaretti, nonostante le ripetute circolari sul sovraccarico".
Augusto Monti (insegnante e romanziere, 1881-1966) 

Lo studente operaio (1955)
"Finché noi avremo - come, per fare l'esempio che mi è più vicino, negli istituti magistrali - dalle dodici alle quindici materie per anno, ognuna con le sue brave sottosezioni, in un totale di una trentina di ore di insegnamento settimanali (che viene ad essere cinque ore al giorno di media), finché noi avremo la pretesa che a queste trenta ore di apprendimento in comune ne corrispondano circa altrettanto di lavoro personale e di ripetizioni, finché noi metteremo, quindi, lo studente dai dodici ai diciotto anni nelle condizioni di un operaio dei tempi di "Metello" (giornata lavorativa dall'alba al tramonto); e fatto questo, ci ricorderemo poi del bisogno di riposo dei ragazzi soltanto lasciando qua e là vacanze a casaccio, allungando le ferie estive e dimenticando di accorciare i programmi; finché la scuola sarà una cosa con programmi che nessuno ha mai potuto svolgere (cioè abbracciare per intero, con trenta quaranta ragazzi da interrogare, cioè da conoscere uno per uno e giudicare ogni due mesi in modo equo); finché questo caos, questa ipocrisia della dottrina scritta sulla carta e
della ignoranza reale, della fatica e dell'ozio distribuiti all'impazzata, finché insomma, questa scuola, brutta copia degli otia cum litteris di Cicerone, non sarà scomparsa, noi non potremo parlare sinceramente di educazione, di
un avvicinarsi dell'attività scolastica agli effettivi bisogni della società italiana".
Laura Lombardo Radice (insegnante di lettere, 1913-2003) 

Eliminiamo l'educazione fisica dal curricolo scolastico (2010)
Gli italiani soffrono di una strana forma di schizofrenia: chiedono allo Stato di erogare ogni sorta di servizi pubblici, lamentandosi se questi vengono tolti o negati, e al tempo stesso protestano contro un prelievo fiscale asfissiante ma inevitabile se quei servizi li deve fornire la pubblica amministrazione. Se poi, come spesso accade, i servizi richiesti sono forniti in modo inefficiente dal Governo, ancor meno si capisce perché gli italiani vogliano a tutti i costi che sia questo, e non il mercato, a fornirli. Facciamo un esempio concreto. Attualmente gli italiani pagano attraverso le tasse l'insegnamento dell'educazione fisica che i loro figli ricevono a scuola. Nel panorama vacillante dell'istruzione pubblica italiana, la ginnastica è forse uno degli ambiti più disastrati, soprattutto per le condizioni fatiscenti delle palestre e delle attrezzature di cui i nostri edifici scolastici sono dotati. Tanto è vero che, al pomeriggio, gli adolescenti italiani vengono iscritti dai lori genitori ad ogni tipo di associazione sportiva privata che possa far fare a loro quell'esercizio fisico essenziale per la crescita, che la scuola pubblica, nella maggior parte dei casi, non è in grado di offrire al mattino. Quindi i genitori italiani pagano due volte per la ginnastica dei loro figli: allo Stato al mattino, per un servizio inefficiente, e ai privati al pomeriggio per un servizio di qualità commisurata alle loro preferenze e possibilità. Gli italiani non sembrano rendersi conto di questo e nemmeno realizzano che quanto essi pagano allo Stato per un servizio inadeguato non è poco. Ci sono 33830 insegnanti di educazione fisica nelle scuole medie inferiori e superiori italiane, la cui retribuzione lorda annua è di circa 29071 euro (con 15 anni di anzianità). (...). Con questa somma si possono acquistare nel mercato privato attività sportive di qualità mediamente migliore di quella offerta dalla scuola pubblica. (...) La maggior parte degli italiani probabilmente reagirebbe con stupore ad una proposta di questo tipo partendo dal presupposto che sia un diritto inalienabile del cittadino ricevere un'educazione fisica adeguata da parte dello Stato, e in particolare che tutti i cittadini, anche quelli poveri, debbano poter accedere a questo diritto. Ma se lo Stato richiede ad ognuno di noi una spesa rilevante per fornire un servizio che in realtà è ben lontano dall'essere adeguato (soprattutto per i poveri che non hanno alternative), non sarebbe meglio chiedere allo Stato di farsi da parte rendendoci i soldi, in modo da consentirci di organizzare da soli quanto necessario per produrre il
Andrea Ichino (economista, n. 1959) dall'articolo su Il Sole24Ore del 25 luglio 2010 

L'invenzione dell'orario e del calendario scolastico (1599)
35. Costanza nell'orario e nelle vacanze (Il Direttore provinciale, equivalente oggi del Ministro della PI, n.d.t. ) stabilisca l'ora di inizio e di fine delle lezioni per tutto l'anno, là dove variano secondo le stagioni. Una volta fissato l'orario, lo si osservi scrupolosamente, così come non si permetta con facilità di ritardare o anticipare il giorno di vacanza settimanale (mercoledì o giovedì era libero almeno al pomeriggio n.d.t. ). Si abbia cura infine di rispettare puntualmente l'ordine dei giorni d'insegnamento e di vacanza.
36 . Le vacanze. Come è necessario uno studio assiduo, così è necessaria qualche interruzione. Si badi pertò che non sia introdotta alcuna nuova vacanza, ma si mantengano con regolarità quelle che sono stabilite.
Ratio atque institutio Studiorum Societatis Iesu
(Ordinamento degli studi della compagnia di Gesù), Roma, 1599. 

I ritmi di apprendimento (1999)
2. Nell'esercizio dell'autonomia didattica le istituzioni scolastiche regolano i tempi dell'insegnamento e dello svolgimento delle singole discipline e attività nel modo più adeguato al tipo di studi e ai ritmi di apprendimento degli alunni. A tal fine le istituzioni scolastiche possono adottare tutte le forme di flessibilità che ritengono opportune e tra l'altro: a) l'articolazione modulare del monte ore annuale di ciascuna disciplina e attività; b) la definizione di unità di insegnamento non coincidenti con l'unità oraria della lezione e l'utilizzazione, nell'ambito del curricolo obbligatorio di cui all'articolo 8, degli spazi orari residui; c) l'attivazione di percorsi didattici individualizzati, nel rispetto del principio generale dell'integrazione degli alunni nella classe e nel gruppo, anche in relazione agli alunni in situazione di handicap secondo quanto previsto dalla legge 5 febbraio 1992, n. 104; d) l'articolazione modulare di gruppi di alunni provenienti dalla stessa o da diverse classi o da diversi anni di corso;
    DPR 275/99. Art. 4 Autonomia didattica (in vigore)

Dimenticare il Meridione

Ho seguito la trasmissione  radio "tutta la città ne parla", centrata sulla crescente insofferenza verso il meridione
Alcune osservazioni:

Bisogna dire la verità.
a) ha ragione il parroco di Parco Verde di Caivano, bisogna dire la verità.
La vita nelle nostre città è indegna di una paese civile. E questo dobbiamo dirlo noi che viviamo in questi quartieri e dobbiamo dire anche che c'è una classe sociale - che assume colori politici diversi a seconda del momento e della convenienza - che ha un ruolo parassitario e che gioca da almeno un secolo e mezzo a usare la miseria e il degrado del sud - da lei stessa alimentato - per pompare e succhiare denari che servono solo a ingrassare se stessa.  Da sempre questa classe sociale è alleata  prima dei conquistatori sabaudi - si l'unità è importante, ci credo, ma le bandiere  non sempre sono portate da personaggi altrettanto nobili che le loro bandiere - poi dei governanti del momento. Il ministro Brunetta ha quel posto grazie ai voti e al sostegno di quella classe parassitaria e nulla ha fatto il suo governo contro questo ceto parassita, e mentre lui parla il governo di cui fa parte sta comprando i voti di quella borghesia parassitaria.
Dunque ha ragione Brunetta e farebbe bene a sputare in cielo per vedere a chi toccano i suoi insulti.
Il razzismo da sempre viene alimentato da quegli stessi che lo usano e lo sfruttano per proprio privato interesse. Quello che è grave, che sta accadendo è che milioni di coscienze restino ostaggio di questo gioco di schieramenti contrapposti dentro i quali, in nome del fronte comune, alcuni prepotenti continuano ad opprimere quelli in nome dei quali dicono di combattere.  Dunque bisogna dire la verità, bisogna dire che viviamo nello schifo e che di questo schifo sono responsabili quegli stessi che fingono di condannarlo. Ciò che è grave è che una persona colta come il parroco non si renda conto che un qualsiasi personaggio pubblico, ancor di più un ministro, non può esprimersi in quel modo, non può istigare un pensiero che è intrinsecamente razzista che unifica in una categoria ciò che non può essere unificato in quanto questa operazione - linguistica e psicologica - contribuisce a opprimere quelli che di questo schifo sono vittime. La monnezza delle strade di Napoli è lo specchio fedele delle sue classi dirigenti e questo non assolve chi deposita ogni monnezza nelle piazzole  e anche sotto casa, anzi li rende doppiamente colpevoli di essere dei sozzoni e di essere mentalmente schiavi dei sozzoni che ci governano (che sono quelli attuali e quelli che si autdichiaravano puliti che hanno governato per 17 anni regione, provincia e comune).

L'ingiustizia dei vincitori non nobilita l'ingiustizia dei vinti
b) lo storico di cui non ricordo il cognome ha ragione quando dice che ci sono stati massacri, che la logica dei generali era quella di invasori. Sono nella quarta generazione di un ufficiale piemontese che ha combattuto a Curtatone e che è giunto a Napoli, nella casa in cui abito, come truppa di occupazione; in casa ho trovato i piani militari e la disposizione delle truppe  non per difenersi dagli eserciti, ma per bombardare e attaccare i quartieri popolari. Di fronte casa mia i bersaglieri hanno fatto fuoco sugli operai in sciopero dell'officina di Pietrarsa che era la prima d'Italia a riparare locomotive.  Tutte le grandi industrie  della zona orientale di Napoli  - dove abito e opero e dove oggi domina la camorra - sono state smantellate una dietro l'altra, quelle pesanti, quelle tessili, quelle delle pelli etc..  quindi è tutto vero, ma è anche vero che era tutta industria protetta, che era tutta industria a capitale inglese, belga, francese, svizzero etc..  è vero che alcune città mostruose (Napoli era più grande di Parigi, e quindi la più popolata città d'Europa; ma era una città, un ambiente produttivo e sociale strutturato, oppure un grande accampamento di clienti commensali di briciole della grassa borghesia che consumava a Napoli i frutti delle rapine nelle campagne meridionali?), è anche vero  che alcune industrie protette succhiavano il sangue di tutto il meridione. C'era ricchezza ma mal distribuita, male usata, riversata nei palazzi principeschi che affollano Napoli, portata all'estero e mai riversata negli investimenti produttivi. Ancora oggi il sistema bancario raccoglie nel meridione molto di più di quello che investe in loco, le banche locali sono diventate filiali lucrose di grandi gruppi del nord.  Gli studi dicono anche che a parità  di macro-indicatori economici c'erano nel cortile di casa dei Borboni - che tale era il loro indicibile regno - livelli di investimenti incomparabilmente diversi e soprattutto una mancanza di imprenditorialità vera che ha reso l'apparato economico del sud facile preda del colonialismo vendicativo dei piemontesi.  Dunque non c'era giustizia e non c'era un sistema economico sano. I piemontesi invece di combattere questa sperequazione e queste ingiustizie hanno sostituito la loro ingiustiza a quella dei borboni, il loro colonialimo industriale a quello degli inglesi, dei francesi, dei belgi. Dunque, allora come oggi, l'ingiustizia dei vincitori non nobilita l'ingiustizia dei vinti. Anche in questo caso dobbiamo dire la verità perchè la verità aiuta la giustizia, aiuta a dare un senso alla sconfitta e all'oppressione degli ultimi, mentre lo schieramento fazioso, da una parte o dall'altra, perpetua nel pensiero uno scontro tra classi dominanti senza considerare la vita di interi popoli.

Non è mai stata fatta l'unica cosa che doveva essere fatta
c) non è vero che tutto quello che doveva essere fatto è stato fatto. Non è mai stata fatta l'unica cosa che doveva essere fatta: rompere l'alleanza politica tra lo stato nazionale e la borghesia parassitaria meridionale e il corollario di questa alleanza che è la tolleranza o l'alleanza con le organizzazioni criminali. La storia degli ultimi cento  anni ci dimostra che anche quando poliziotti newyorkesi, prefetti di ferro, generali dei carabinieri, commissari di polizia, magistrati, sacerdoti, giornalisti, si ribellano alle organizzazioni criminali, la rete delle debolezze, delle tolleranze, delle passività, delle superficialità ed infine anche quella delle complicità vere e proprie  si richiude sui  protagonisti che alla fine pagheranno con la vita. Dunque sono stanchi del meridione quelli che hanno sempre girato la faccia dall'altra parte, che sono annoiati di questo parlare sempre delle stesse cose, di questo aggrovigliarsi intorno agli stessi problemi, che vogliono continuare  fare affari e salotto con la borghesia meridionale senza essere disturbati da tante inutili chiacchiere. Hanno ragione, chiedo a voi giornalisti se dobbiamo inseguire questi signori per convincerli della bontà della causa meridionale oppure dobbiamo aiutare le persone - e sono già milioni - a capire che la proria dignità la si difende innanzi tutto dissociandosi  mentalmente e psicologicamente dalla sudditanza alle idee e al potere di questi signori.

Cesare Moreno, maestro di strada, ex coordinatore del progetto Chance, un progetto che si è occupato per dodici anni - con successo e con onore -  dei ragazzi che non vanno a scuola e che è stato chiuso nell'indifferenza generale  da quella borghesia che oggi grida allo scandalo razzista.

sabato 11 settembre 2010

Non ci disperdiamo? Precari e dispersi

Ieri alle 13 - con supplementi al cardiopalma fino alle 15 – L’associazione Maestri di Strada, insieme ad altri sei partner ha spedito a “Fondazione per il Sud” un plico con la richiesta di finanziamento per un progetto di intervento in un Istituto professionale finalizzato a prevenire e ridurre drasticamente la dispersione. Abbiamo tradotto in formule, caselle di questionario, voci di bilancio, il lavoro fatto a luglio con le Giornate di Studio ed il meglio di dodici anni di esperienze sul campo. Fare qualcosa perché tutti i nostri giovani diventino veri cittadini è possibile. Noi tentiamo la strada di questo piccolo progetto per tenere accesa 'la fiammella pilota', per ricordare che dopo la fine di Chance, non è finito il problema, se questo progetto decolla, ma ci vogliono almeno tre mesi prima che possa accadere, potremo occuparci di trecento giovani di cui 100 a rischio – certezza – di dispersione, ma nel frattempo, in un centinaio tra istituti professionali, tecnici, polispecialistici della sola provincia di Napoli ci sono otto-diecimila giovani che sono candidati prima all’’esclusione dalla scuola e poi all’esclusione da una piena partecipazione alla vita civile.
L’esperienza e la conoscenza diretta di docenti, capi di istituto, studiosi, ci dice che la metà di questi giovani, 4-5000, a scuola o non ci mette proprio piede, o se ne va nei primi giorni o resiste più o meno fino all’inizio di dicembre. È come se, ipotizzando che ogni scuola abbia mille allievi, nel giro di tre mesi venissero chiuse cinque grandi scuole faticosamente messe in piedi ai primi di settembre. Si tratta di una danno sociale gigantesco e gravido di conseguenze: quando i ragazzi non andavano a scuola per cause ‘socio-economiche’, cioè perché dovevano “portare i soldi a casa” ( ma io non sono affatto sicuro che quella fosse la causa, era piuttosto una rappresentazione sociale accettata dalle vittime e dai responsabili per coprire il fatto che in realtà la scuola non aveva da dire nulla – nel modo in cui lo diceva – a troppi giovani delle classi povere) poteva restare a loro un minimo di autostima: avrei potuto studiare se solo avessi avuto i soldi. Andare a scuola e non riuscire, entrare il primo giorno in classe dicendo a se stessi: non ce la potrò mai fare; avere la conferma di questo nel giro di pochi mesi, trasmette a questo giovane il senso perenne di una mutilazione, l’idea perdurante che lui in questa società potrà esserci solo se dipende da qualcuno o qualcosa, se accetterà che qualche altro gli dica cosa fare. Sotto molti aspetti sarebbe meglio che questo giovane non mettesse piede a scuola ‘a causa di forza maggiore’, a causa di una discriminazione sociale, per qualsiasi causa esterna piuttosto che per l’autoconvincimento di essere ‘inferiore agli altri’.

Noi abbiamo imparato negli anni che, fermo restando il diritto di tutti di accedere - ed essere sostenuti per potervi restare - a tutti i gradi dell’istruzione, la priorità è che i giovani restino convinti di avere le risorse per poter gestire se stessi. Non è obbligatorio fare tutti gli ingegneri, ma è obbligatorio poter riconoscere la dignità di tutti i lavori e poter svolgere in modo responsabile il proprio ruolo nella società. Forse bisogna che ciò che è politicamente e socialmente intollerabile, noi impariamo a tollerarlo nella nostra psiche, ossia a metterlo nei pensieri e nelle esperienze che ci appartengono, in mezzo a cui occorre imparare a navigare: il lavoro precario, mentre ci battiamo per eliminarlo continua ad esistere, e così esistono il lavoro nero ed illegale, la violenza diffusa, la criminalità spicciola, la criminalità organizzata. Tutti i peggiori mostri sociali contro cui molti di noi si battono fanno parte del quotidiano dei nostri giovani allievi e noi conviviamo ogni giorno con questo. Noi dobbiamo convivere con la camorra. Vedo già tutti quelli che saltano sulla sedia : ma forse non l’ha già detto Berlusconi o un suo pari? E’ proprio così, tutto sta a capire da quale lato si convive, se stando a pranzo con loro o cercando di mantenere una esistenza dignitosa in luoghi dove non rappresentano infiltrazioni ma siano noi gli infiltrati.

Ho rivisto una mia intervista per ‘Cara Italia’ (1998) del grande Enzo Biagi:
- I suoi bambini conoscono la camorra?
- Certo che la conoscono, ci vivono dentro
- E parlano della camorra?
- Fanno di più parlano nella camorra.
E lui stesso in quel momento con la sua grossa auto, con la sua scorta reale e simbolica, si trovava nel cuore della camorra, ed era sotto lo sguardo di criminali che lo spiavano dietro le tende delle finestre: alcuni dei bimbi di cinque anni che davanti a lui cantavano “oi vita oi vita mia” oggi hanno già imbracciato un mitra, stanno già seppelliti sotto terra, in una cella di carcere, in un bunker aspettando il killer. O stanno in sella a una moto impegnati in un agguato.
Era una scena surreale e anche un po’ penosa: vedere un grande giornalista completamente cieco di fronte a quella realtà, parlarne come se stesse fuori. Ecco questo si intende per convivere: vedere la realtà, continuarla comunque a vedere, osservare la cacca sul marciapiede prima di metterci il piede dentro.

Noi educatori non possiamo spacciare sogni e metterci in concorrenza con altri spacciatori, noi abbiamo un sogno che non è in vendita ed è il sogno di un giovane che si realizzi e sappia esser se stesso anche e soprattutto perché vive in condizioni difficili, senza negarle, senza adattarvisi.
Dunque noi possiamo contribuire a ridurre il danno, possiamo stabilire ‘un dialogo di vita’ con i giovani e usare le nostre competenze, la nostra esperienza per sostenerli in una vita che è difficile per tutti.
Con il progetto Chance abbiamo dimostrato per dodici anni che prendendo 15 disperati, aggressivi, già feriti dalla vita, deturpati dalle sconfitte era possibile riaprire un discorso: 12-13 riuscivano a prendere la licenza media e 6-7 una qualifica professionale. Avendo mezzi diversi avremmo potuto fare di più, ma siamo sicuri che è possibile fare di più se si interviene quando il processo di ritiro dalle relazioni sociali e dall’apprendimento è agli inizi. Dei diecimila ragazzi candidati all’esclusione almeno cinquemila possono riprendere il cammino senza grandi sforzi, ma è necessario stabilire con loro un dialogo, un'alleanza umana che precede qualsiasi contratto formativo, qualsiasi regolamento scolastico, qualsiasi coercizione di legge.
Molti docenti questo lo sanno fare, hanno imparato a farlo sulla loro pelle e lo fanno e basta, nonostante il ministero, i registri, la sarabanda di leggi, le RSU, i contratti, il porta a porta di Vespa, e quant’altro. Auguri a loro
Molti altri potrebbero farlo ma non hanno le straripanti energie necessarie ad andare contro corrente; moltissimi altri potrebbero farlo se solo fossero un po’ incoraggiati e sostenuti.
Un certo numero di noi ha imparato a sostenere i docenti, a valorizzare il loro sapere, a guidarli in un processo di autoapprendimento professionale che una volta messo in moto nessuno può fermare. Avevamo chiesto di valorizzare questa capacità nostra, prima che fosse troppo tardi –rispetto alle pensioni, alle morti e alla stanchezza – ma non siamo stati ascoltati per insipienza, per invidia, per prepotenza. Non fa niente, se non siamo capaci di sopravvivere all’idiozia cosa potremmo mai insegnare ai nostri allievi?

Precari preziosi
Tra i docenti che hanno imparato stabilire un buon dialogo con gli allievi, o che possono impararlo rapidamente, moltissimi sono docenti precari che per motivi facilmente immaginabili hanno condotto la loro precaria esistenza professionale soprattutto in precarie periferie, dentro precarie scuole e con giovani in precarie condizioni di ‘scolarizzazione’. Quelli che sono sopravvissuti a questa giungla o sono impazziti del tutto o hanno raggiunto un superiore livello di saggezza.
Dunque se solo noi potessimo far incontrare alcuni capaci di guidare un processo di ‘apprendimento professionale situato’ (questa è la terminologia per chiarire che occorre riflettere nelle situazioni e non solo nei laboratori’ - quando ci sono – dell’accademia, con quei docenti che hanno già una ricca esperienza che aspetta di essere valorizzata avremmo una ‘task force’ in grado di affrontare il problema della dispersione con un risultato di almeno il 50% di successo.

Faccio quindi questa modesta proposta.

Visto che l’anno prossimo 10.000 studenti della provincia di Napoli o saranno fuori della scuola o saranno iscritti di nuovo in una prima, noi mettiamo in campo 600 docenti (due orari cattedra per classe) per sostenere gli allievi in difficoltà. Al termine dell’anno questi sosterranno una prova - tipo INVALSI - per capire se veramente sono rientrati e l’anno prossimo ci saranno classi in più sufficienti ad assorbirli oppure potremo impiegarli –solo se hanno avuto successo – in un analogo progetto con le nuove classi prime.
 Dorrebbero essere contenti anche Gelmini e Tremonti: Gelmini perché comunque fa bella figura con i precari, con la cultura e poi riduce un po’ la pressione politico sindacale su di lei; Tremonti perché complessivamente dalle casse dello stato dovrà uscire molto di meno e “meglio” rispetto a spendere i soldi due volte per la ripetenza e rispetto a quanto bisogna spendere per la galera, tossicodipendenza, criminalità spicciola che certamente viene aiutata dall’esclusione sociale (fortunatamente in bassa proporzione) e rispetto ad allargare il numero di persone che devono vivere più o meno parassitariamente ai margini. Dovrebbe essere contento anche Napolitano, perché in questo modo un diritto costituzionale negletto sarà almeno in parte riaffermato.

Ma allora dov’è la fregatura? Non lo so, ma sono sicuro che c’è e che questa proposta non sarà presa in considerazione o se lo sarà, sarà talmente stravolta che sarà meglio dissociarsi preventivamente.

Allora avrei una proposta di riserva, che in parte sto già realizzando:

Mi sono preso tre mesi di aspettativa non remunerata ( perdo 4200 euro, un lusso che mi posso permettere dato il mio livello di consumi e poi ho avuto 7500 euro di liquidazione per la morte di mia moglie) e mi sono messo a disposizione di una scuola per accogliere i ragazzi nelle prime ore di scuola, momento delicato in cui si gioca una partita importante e si confermano le aspettative negative da entrambi i lati della barricata. Ho raccolto 20 pedagogisti-educatori- psicologi volontari e per un giorno faremo questa attività. Dopo, spero di poter fare qualche piccola cosa insieme alla rete che avevamo costituito nel territorio con Chance e che oggi è inattiva ed in parte dispersa.
Si potrebbe fare di più se ad esempio qualche docente precario fosse disponibile a fare una sorta di sciopero al contrario, una dimostrazione di quello che potrebbe essere se qualcuno ragionasse tenendo presente il bene comune e non solo i propri più che legittimi interessi.

L’Associazione Maestri di Strada, ricorrendo alle prestazioni gratuite del sottoscritto e di qualche altro volontario, è in grado di sostenere un gruppo di 15-20 docenti (precari e disoccupati) che si impegnino su questo fronte, chiederei a ciascuno di loro circa dieci ore settimanali di cui 7 in classe e 3 in’work discussion’ ossia gruppi di discussine ‘extradoganali’ fuori dei registri, degli utili formalismi e di quanto altro non sia strettamente funzionale a ciò che si può fare in classe con allievi poco motivati e che vivono realtà difficili. Si potrebbe fare questo lavoro fino a Natale, accompagnato da un pubblico monitoraggio del procedere dell’azione (leggi una conferenza stampa mensile per fare il punto della situazione) e poi chi vivrà vedrà.
Chi sia interessato può scriverci e prenderemo accordi. Non prendiamo tutti a scatola chiusa, facciamo prima un colloquio e verifichiamo di poter lavorare assieme e di essere felici di farlo. Educare è un piacere, se non ci piacciamo, che piacere è?

"Donate Free to  preserve, and protect the rainforest....  "
PS – Se ognuno dei 5000 allievi promossi elargisse – come si fa per il free software - liberamente un contributo ai docenti, diciamo di 100 euro, avremmo un fondo cassa di 500.000 euro con cui qualcuno di noi potrebbe fuggire ai Caraibi e farsi una meritata vacanza di lusso. (però se questa idea vi pare troppo borghese o capitalistica, o socialmente discriminatoria – 10 euro al mese cono un sacrificio troppo forte per i nostri giovani emarginati e le loro famiglie –, se preferite il trekking o il turismo non organizzato, cancellatela pure, apposta l’ho messa in fondo)

sabato 21 agosto 2010

Maestri di strada in TV; 1987-2001

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1-Il testimone 1987; 2-La ricreazione è finita 1991; 3-Milano-Italia 1994; 4-Cara Italia (Biagi) 1998; 5-Costanzo Show 2000; 6- Costanzo Show 2001
Fare clic per vedere il francobollo nel blog;
doppio clic per vedere in YouTube in formato più grande.

Sto riorganizzando il mio computer in vista di una riorganizzazione della vita dal momento che è molto improbabile che continuerò il lavoro precedente.

Sto anche organizzando le mie ricchezze che sono scritti, video, relazioni per incontri formativi etc.. cosicché se qualcuno vuole una eredità gratuita si può servire.

Ho messo su YouTube la serie dei video che comincia nel 1987 con la partecipazione alla trasmissione 'Il testimone' continua con La ricreazione è finita (anteprima di Milano-Italia) del 1991, Milano Italia del 1994, Biagi (Cara Italia) del 1998, Costanzo Show nel 2000 e 2001.  Per poter rientrare nei limti di You Tube ho montato solo le parti più significative, e naturalmente c'è una certa insistenza sulla mia persona e la mia faccia. D'altra parte, come si suol dire, ci ho messo la faccia e queste sono le conseguenze.

Ci sono, in mezzo alle date citate, molte altre cose: vari TG e speciali e successivamente trasmissioni di Rai Educational,(già sul canale dei Maestri di Strada) TMC, SAT2000. Cominciamo Bene, Ricomincio da qui (D'eusanio) etc...: la trasmissione, più volte su canali RAI,  del film-documentario "Pesci Combattenti".

Per 25 anni i mezzi di comunicazione di massa sono stati un potente alleato del lavoro educativo, e chi scrive ha parlato più volte a diversi milioni di persone dei problemi dei giovani.
(in genere gli ascolti, per trasmissioni già attestate sui 5-6 milioni di spettatori  salivano di circa 500.000 spettatori durante i miei interventi, così mi è stato riferito e così dico, ma non posso attestare nulla; tuttavia il fatto di essere richiamato più volte nella stessa trasmissione e il fatto che ci fosse un passa parola tra giornalisti, significa qualcosa).

Chi abbia la pazienza di guardare qualcuno di questi video potrà vedere che nelle trasmissioni in diretta il messaggio è chiaro ed esplicito e non manipolabile, anzi il contenitore  popolare aiuta la diffusione di un messaggio a volte difficile e complesso.

E' motivo di soddisfazione per me che, a distanza di anni, la mia faccia compaia sempre di meno e compaiono di più giovani operatori, allievi in corso, ex allievi. Significa che qualcosa è cresciuto, qualcuno ha appreso.

E voglio dire ai miei colleghi ex che tutto questo ha sostenuto il progetto e soprattutto l'attenzione generale alle problematiche dei giovani. Se compare spesso la mia faccia è perché la stragrande maggioranza dei docenti - inclusi quelli di Chance - vive la televisione e i giornali come nemici, come mezzi di cui diffidare, e quindi per molto tempo sono stato il solo ad osare entrare nella tana del lupo. Bisogna imparare ad esprimersi in modo adeguato, ma questo vale anche nei confronti dei ragazzi. Se spesso sono riuscito in pochi minuti a dire cose  importanti è perché ho imparato parlando ai bambini di Barra, parlando ai loro genitori poco colti. Ma soprattutto ho imparato a prendere contatto con il loro cuore prima che con il loro cervello e questo funziona anche in TV.

E voglio anche dire qualcosa sull'autorità del mezzo e le considerazioni in proposito di Mac Luhan (Riporto la versione di Wikipedia, che mi sembra abbastanza fedele):
Il mezzo è il messaggio
    L'espressione "il mezzo è il messaggio" ci dice perciò che ogni medium va studiato in base ai criteri strutturali in base ai quali
organizza la comunicazione; è proprio la particolare struttura comunicativa di ogni medium che lo rende non neutrale, perché essa suscita negli utenti-spettatori determinati comportamenti e modi di pensare e porta alla formazione di una certa forma mentis. Ci sono, poi, alcuni media che secondo McLuhan assolvono soprattutto la funzione di rassicurare e uno di questi media è la televisione, che per lui era un mezzo di conferma: non era un medium che desse luogo a novità nell'ambito sociale o nell'ambito dei comportamenti personali.
    La televisione non crea delle novità, non suscita delle novità, è quindi un mezzo che conforta, consola, conferma e "inchioda" gli spettatori in una stasi fisica (stare per del tempo seduti a guardarla) e mentale (poiché favorisce lo sviluppo di una forma mentis non interattiva, al contrario di internet e di altri ambienti comunicativi a due o più sensi).

Per uno che fa il mio lavoro il feed back è continuo. Ogni volta che rientravo da una trasmissione TV trovavo un cambiamento: "mandati di cattura" (trovatemi quel Moreno! ma chi lo manda! etc...) delle autorità, panico e sconcerto tra i loro addetti stampa, solidarietà di ragazzi, colleghi, 'uomini della strada' (tassisti, portieri, commercianti, bidelli, guardie giurate, vicini di casa....)
E trovavo anche – a conferma di certe affermazioni di Mac Luhan sulla potenza del mezzo – che erano salite le mie quotazioni presso persone di cultura e di studio. Mi sono quindi chiesto se il mezzo non ‘gonfiasse’ il mio prestigio e sono arrivato invece alla conclusione che è l’essere esposto in pubblico che in un certo senso costituisce una verifica, perché tutti sanno che il giorno dopo sei in mezzo alla gente e che queste smentirebbero eventuali falsità. Insomma penso che ‘metterci la faccia’ conferisce credibilità a quello che dici e che fai, e che il mezzo è importante perché ti espone al giudizio e alla valutazione di milioni di persone e ti espone alla concreta valutazione di chi ti vive accanto. Per questo io credo che sia importante inserire nel curricolo mio personale e dei Maestri di Strada in generale, la presenza in trasmissioni televisive e dico anche che questa attività fa parte del cerchio più largo e distante di quel lavoro di comunità ed istituzionale che serve a fare in modo che l’educazione dei giovani non sia una faccenda confinata agli specialisti ed in quanto tale ghettizzata. Attraverso buone trasmissioni televisive anche i nostri ragazzi hanno ricavato il senso politico della loro attività che è un elemento importante del percorso di cittadinanza. Dunque i mezzi di comunicazione di massa andrebbero inclusi nel repertorio degli strumenti che un educatore deve portare nella sua borsa degli attrezzi. Ed è per questo che propongo questi video ed altri che col tempo inserirò.

venerdì 13 agosto 2010

domenica 1 agosto 2010

Un progetto educativo integrato - Offerta di collaborazione

Undici anni fa, art 68 della legge 144 del 1999 fu istituito l’obbligo formativo; mentre Regione e scuole ancora annaspavano alla ricerca di soluzioni operative, il progetto Chance ha cominciato a proporre ai giovani emarginati percorsi di formazione professionale che fossero al tempo stesso percorsi di cittadinanza e di reintegro della persona altrimenti depressa, sbandata, aggressiva. All’epoca, se qualcuno se ne ricorda in Parlamento grazie a Rifondazione comunista, passò un solo anno di prolungamento dell’obbligo, perché a questi democratici appariva disdicevole  che l’obbligo si compisse nella formazione professionale, che è di serie B, è in mano ai privati etc etc..  la scelta precoce e via dicendo. Nel fare questo siamo andati contro corrente e al tempo stesso abbiamo dimostrato che è di serie B solo ciò che viene gestito male e contro la crescita vera dei giovani, mentre è di primordine il risultato che si può ottenere quando si impiegano al meglio le migliori energie.
Quattro anni dopo la legge 53 del 28 marzo 2003 regola, anche con accordi Stato-Regioni, il modo di realizzare l’obbligo formativo e fornisce anche finanziamenti. Era l’occasione perché il percorso sperimentale fatto da Chance potesse rientrare nella muova normativa, ma le nostre autorità, Ufficio Scolastico Regionale e Regione, non dettero segni di vita, cosicché chi scrive si mise al lavoro insieme ad un gruppo di volontari e organizzò insieme a tre scuole superori  la partecipazione al bando regionale per la realizzazione di tre OFIS (Offerta Formativa Integrata Sperimentale). All’epoca le scuole superiori erano poco ‘attrezzate’ per la partecipazione a questi progetti ed accettarono che la progettazione e la gestione operativa fosse degli operatori di Chance. In più fu firmato un protocollo con l’assessore comunale del tempo perché un parte delle risorse del Progetto Chance fosse  impiegata a sostegno di questo progetto (paghetta, visite guidate, attività socio-educative etc). Questi percorsi della durata di tre anni ci hanno consentito di verificare sulla distanza gli effetti del lavoro di recupero della terza media.
Grazie all’esperienza accumulata l’assessore regionale del tempo chiamò chi scrive in una commissione regionale che programmava questo tipo di interventi. Ho fornito il mio contributo in numerosi incontri e le linee guida pedagogiche pubblicate nel bollettino ufficiale  accolgono (senza citarle) integralmente le linee seguite dal Progetto Chance.
In questa commissione  portai l’esperienza di integrazione tra progetto di istruzione e formazione e progetto socio-educativo realizzato nell’anno precedente e fu così che tra un centinaio di OFIS  fu concesso che 12 (sei a Napoli e sei nel resto della Regione)  fossero progetti-pilota con un finanziamento suppletivo nell’ordine dei 20.000 euro per le attività socio-educative. Anche in questo caso, in assenza di iniziative istituzionali, chi scrive insieme ad una serie di volontari della associazione Maestri di strada preparò 6 progetti integrati e li propose a sei scuole con un patto di questo tipo: noi vi forniamo la progettazione e il coordinamento pedagogico gratuitamente, voi ci lasciate gestire il progetto secondo gli standard ormai collaudati.  Su 6 progetti presentati a bando cinque sono stati approvati (uno è stato presentato qualche minuto dopo il tempo massimo) e sono stati realizzati nei successivi tre anni. Tre si sono realizzati in istituti professionali, uno in un istituto tecnico di ragioneria, l’altro in un istituto tecnico per i servizi sociali.
L’Associazione Maestri di Strada per assicurare adeguata assistenza psicologica e pedagogica a tutti gli operatori  organizzò un complesso accordo di rete che metteva insieme le risorse delle cinque scuole per centralizzare  alcune funzioni di sistema.
Dunque le metodologie del progetto Chance  potevano tranquillamente essere  portate in altri contesti e inserirsi perfettamente negli ordinamenti stabiliti, ma questo dato di fatto ed il sostanziale successo di questa operazione  non è mai stato riconosciuto e anche all’interno del progetto Chance è stato considerato come una sorta di corpo estraneo ( naturalmente ci sono  significative eccezioni, ad esempio i colleghi che si sono impegnati della gestione di questi corsi). Era una occasione per svoltare pagina, ma quando fu chiesto all’assessore dell’epoca di ufficializzare la partecipazione di Chance alla commissione che stabiliva le linee di intervento fu detto che con Chance c’erano dei problemi non meglio specificati.  Ripetiamo per un momento la situazione: chi scrive aveva collaborato per tre anni a questa commissione a titolo personale (mentre c’era un’orgia di consulenti remunerati, chi scrive non ha  ricevuto un euro) ma non poteva partecipare come sarebbe stato doveroso come rappresentate dell’esperienza Chance.  Questa imposizione fu accettata senza discussione dal gruppo dirigente di Chance e ovviamente da chi scrive che per spirito di servizio – ma a posteriori direi per mera insipienza – continuò  fare la sua parte,
Al cambio di assessore  - stessa maggioranza ma nuovo partito – tutto questo viene cassato, il nuovo Assessore non si preoccupa neppure di darci il benservito, semplicemente ignora tutto il nostro lavoro e tutte le esperienze significative condotte non solo a Chance ma in decine di OFIS che avevano sperimentato nuovi modi di fare scuola.  Gli interventi successivi tolgono ai progetti integrati tutte le parti che avevano contribuito al successo: la mensa, le visite guidate, le attività socio-educative, il tutor, ma soprattutto non si sviluppa alcuna integrazione con altre attività che pure venivano finanziate (ad esempio scuole aperte) e che potevano utilmente aggiungersi alle risorse specificamente destinate agli interventi integrati.
Cosicché noi del progetto Chance siamo costretti a ritornare indietro, ci inventiamo il “corso orientativo polivalente” in modo da preparare i nostri allievi a entrare nei percorsi regionali che non prevedono misure significative di ‘sostegno alla persona’ . Nel frattempo il comune ci leva i finanziamenti, quindi tutto questo si realizza con i fondi regionali e così accade, tant’è  che i corsi professionali si concludono il 16 ottobre 2009: avevamo prolungato i corsi in modo da tenere  unito il gruppo di lavoro e i giovani  finché non si raggiungesse un nuovo assetto.  Nel frattempo la direzione del MIUR ci aveva levato i docenti,
Quando il 13 novembre 2009 la Regione approva il nuovo progetto Chance, i percorsi professionali non sono neppure nominati e nessuna risposta è stata data alla numerose richieste ufficiali tendenti a creare almeno una continuità tra i percorsi di scuola media e gli esistenti percorsi alternativi sperimentali (PAS).
Attualmente neppure si sa se e come verranno finanziati i nuovi PAS mentre il progetto Chance Regionale non riesce neppure a pagare il lavoro già svolto. Allo stato attuale dei fatti quindi per i giovani tra 14 e 16 anni non esiste nessuna possibilità se non l’iscrizione alla nuova scuola superiore in cui  è stata ulteriormente ridotta e annullata  - proprio nel biennio iniziale -  la parte operativa e di laboratorio. Nei fatti i tassi di dispersione cresceranno a dismisura nella città di Napoli e nella provincia.
Chi scrive sta facendo un  tentativo perché la Direzione Regionale riprenda l’iniziativa su questo terreno e ciò dovrebbe essere facilitato dal fatto che comunque la cosiddetta riforma prevede varie misure di accompagnamento anche in direzione della prevenzione della dispersione , tuttavia sono mesi che c’è un ‘vuoto di potere’ alla Direzione Regionale (il nuovo Direttore, faticosamente reperito non si è ancora insediato) che non facilita il compito; in secondo luogo sperava molto di poter fare ameno un progetto  veramente integrato e sistemico con un finanziamento della fondazione per il Sud.
Il progetto è stato elaborato, è fattibile, è compatibile con le norme,  ma la scuola con cui avevo intrapreso il percorso si è dovuta ritirare per pregressi impegni. Quindi anche questa possibilità è sfumata.  Salvo un recupero dell’ultima ora. Scrivo quindi queste note per offrire a chi ne abbia voglia la possibilità di partecipare a un progetto che potrebbe aiutare a delineare un modello di intervento che sia meno episodico e dispersivo di quelli finora sperimentati.
Elenco di seguito le caratteristiche essenziali;  per una descrizione più articolata si possono consultare i documenti estesi al link.  Progetto Fondazione Sud  (stesso progetto su Scribd)
La scadenza per la presentazione è il 10 settembre, i vari partner sono già disponibili, manca solo la scuola
Il progetto prevede un intervento di due anni sulle classi prime con l’obiettivo di
1.    arricchire l’offerta formativa per tutti gli allievi delle prime in modo da favorire la loro partecipazione alla vita della scuola e alla vita sociale;
2.    dimezzare la dispersione nel biennio (orientativamente dal 40/50% al 20/25%stando ai  dati dei professionali, nelle altre scuola le percentuali sono inferiori)
3.    recuperare  un paio di decine di casi di conclamata esclusione,
4.    accompagnare  i percorsi di riflessione dei docenti e di tutti gli operatori al fine di sviluppare una professionalità ricca e complessa.
5.    creare stabili relazioni di scambio circolare tra scuola e territorio;
6.    diffondere alle scuole del territorio di riferimento metodologie  per migliorare la qualità del lavoro educativo,
I modi di intervento sono più o meno questi:
•    assistenza psicopedagogica ai docenti e agli operatori da parte di operatori esperti che accompagnano l’intero percorso di realizzazione del progetto e le pratiche riflessive connesse;
•    interventi di supporto alla giovane persona che studia  realizzati da educatori specializzati che collaborano con i docenti alla tenuta del gruppo classe e allo sviluppo di attività socio-educative e di cittadinanza
•    interventi di supporto alla didattica tramite laboratori, visite guidate, tirocini formativi, lavoro in piccoli gruppi assistiti da educatori
•    interventi per lo sviluppo della cittadinanza da realizzarsi  in modo integrato tra scuola e territorio; iniziative di progettazione partecipata
•    collaborazione con gruppi di ricerca italiani e napoletani nel campo delle scienze della formazione, psicologia, filosofia, antropologia per un monitoraggio scientifico del progetto,  per lo svolgimento di tirocini e dottorati.
Le scuole che possono partecipare devono:
a)    essere situate nel territorio comunale di Napoli
b)    essere scuole superiori
c)    essere preferibilmente istituti professionali o tecnici
d)    possono essere scuole medie a patto che abbiano già una forte interazione con scuole superiori del territorio
e)    possono essere anche licei scientifici o classici. In questo caso occorre tarare il progetto in relazione alle specifiche difficoltà incontrate dagli allievi. Si tratta comunque di una sfida per molti versi ancora più significativa che non quella realizzabile negli istituti professionali.
f)    Che ci siano almeno due docenti per ciascuna classe prima, disponibili a partecipare al progetto.
 Cesare Moreno
PS - Molti mi dicono di essere prudente nella divulgazione di particolari del progetto ‘se no te lo rubano’. Io non chiedo altro che molti rubino il progetto. L’unica condizione è che lo rubino bene, ossia che lo prendano tutto e non solo qualche pezzo e che si dedichino alla sua realizzazione con la cura e la determinazione che richiede.  Se qualcuno mi segnala di tali furti  mi fa felice.

martedì 6 luglio 2010

Percorsi spezzati



GIORNATE di STUDIO

Saperi di strada
e cittadinanza attiva

Trame di pensiero e strutture
per la promozione di nuove alleanze educative

Napoli 2-3 luglio 2010   


PERCORSI SPEZZATI. Una Casa blu da demolire o ristrutturare

Introduzione di Santa Parrello
(Dipartimento di Scienze relazionali G. Iacono - Università degli Studi di Napoli Federico II)
Intervento di chiusura di Cesare Moreno, maestro di strada

Quando l’Associazione Maestri di Strada mi ha invitata a collaborare al coordinamento scientifico di queste Giornate, mentre facevo una serie di riflessioni professionali sono ritornata con la memoria ad un breve periodo di qualche anno fa.
Ero, per una manciata di ore, la psicologa di un gruppo di 10 adolescenti inseriti in un percorso di lotta alla dispersione scolastica. La tutor andava la mattina quasi casa per casa a svegliare i ragazzi, di età compresa fra i 15 e i 19 anni. Facevo con loro il tragitto dal centro storico alla scuola agraria che ci ospitava un po’ fuori città. In quel pulmino ho scoperto le ricorrenze statisticamente significative dei testi di molte canzoni dei neomelodici napoletani, chiaramente centrati sul tema della gelosia, del tradimento, del matrimonio infelice. Le ragazze erano 3. Le nostre discussioni di gruppo faticose, ma io apprendevo molto, quasi come un antropologo su marte: esploravo pianeti dai codici culturali lontanissimi dai miei, eppure le dinamiche adolescenziali mi sembravano note.
Una mattina una delle ragazze mi diede furtivamente una lettera: mi raccontava il suo fidanzamento ‘in casa’ con un ragazzo che ben presto si era rivelato gelosissimo e violento, secondo un canone che tuttavia non la stupiva. E’ consuetudine in certi contesti che i genitori passino ai fidanzati delle figlie il controllo sul loro comportamento di giovani donne, senza aver troppa cura dell’eventuale violenza con cui esso si esercita. Il problema narrato nella lettera era dunque apparentemente un altro, e cioè l’incontro inatteso con un coetaneo, più gentile e sensibile del fidanzato, dal quale la ragazza si sentiva attratta e per questo confessava il suo insopportabile senso di colpa. Da poco si era verificato un fatto di cronaca cittadina, del quale avevamo discusso nel gruppo: l’omicidio per accoltellamento di un adolescente che aveva osato ‘guardare’ la fidanzata di un altro… Invitai la giovane ad un colloquio su una panchina riparata dell’enorme giardino della scuola, non c’erano altri spazi.. era molto spaventata ma non tanto da non provare a chiedere aiuto. Tuttavia le mie ore previste dal progetto erano quasi terminate. Cercai modalità di prosieguo, inutilmente. Ho avuto notizie di Valeria due anni dopo, per caso: era rimasta incinta di un uomo sposato molto più grande di lei ed era fuggita di casa da sola.. non aveva concluso il suo percorso formativo. Neanch’io: avevo infatti la netta sensazione di un lavoro spezzato, nel quale avevo lasciato intravedere altre possibilità senza poterle poi sostenere. Non so in che modo il legislatore dell’obbligo formativo avesse immaginato quel ruolo di psicologo a ore…. Sta di fatto che ho sempre compreso a fondo, credo, gli insegnanti precari che hanno poi lavorato con me, quando raccontavano di percorsi spezzati dal mancato riconoscimento della necessità di continuità didattica. Non si tratta solo di difficoltà a separarsi, a riconoscere i limiti, ma di consapevolezza del fatto che dopo ci sarà un vuoto, per giovani già avvezzi alla solitudine ed alla gestione troppo precoce di problemi da adulti.
I miei insegnanti, alle prese con la prima formazione SICSI, o con corsi abilitanti dopo un decennio di lavoro da supplenti o da insegnanti che hanno scelto il sostegno per necessità di lavoro, i miei insegnanti delle scuole cosiddette normali o a rischio, hanno sempre generosamente raccontato la quotidianità difficile eppure talvolta entusiasmante, le fatiche, le paure, le frustrazioni, le sconfitte, ma anche la tenacia e le soddisfazioni. Nelle loro narrazioni (strumento prezioso di formazione e di ricerca) mi è sempre sembrato si potesse vedere bene la realtà della scuola italiana, che consente aree di normalità e di eccellenza, ma che soprattutto sancisce e amplifica le diseguaglianze, discrimina, spreca: spreca le capacità dei docenti lasciandoli soli, spreca le potenzialità degli allievi che potrebbero essere sostenute. Fra i tantissimi racconti che ho stimolato, ascoltato ed utilizzato nella formazione degli insegnanti, c’è quello dell’incontro con Ciro: “lo scorso anno ho avuto una supplenza annuale - scriveva la docente - 7 ore di lettere in una prima media.(..). I colleghi mi hanno già parlato di Ciro: il padre è rimasto ucciso in un conflitto a fuoco, vive con la madre e con due fratelli. Ci accomuna un peccato d’origine: entrambi proveniamo dalla periferia napoletana ed io che ne sono uscita, ricordo ancora quel senso di inadeguatezza che ti assale di fronte ai compagni del Vomero quando dici che abiti a Secondigliano. Parto da lì, da questo luogo sinonimo di emarginazione, per fargli capire che per me non è un “alieno”, che mi importa di lui, che lo considero intelligente e degno di rispetto come tutti gli altri, non uno scarto o peggio un numero che ti consente di formare o meno una classe. Iniziamo a negoziare i ruoli, non mi riconosce l’autorità di insegnante e allora scendiamo a patti (..). E così su queste negoziazioni quotidiane è trascorso un anno scolastico; a volte Ciro si è impegnato, si è interessato a qualche lettura, l’ho visto incantarsi di fronte alle “Fiabe campane” raccolte da Roberto de Simone; altre volte ha vinto la spinta eversiva, quell’essere rabbiosamente contro, fuori dalle regole e dagli schemi che accomuna le storie di questi ragazzi. (..) Ma alla fine dell’anno, inesorabile, è arrivata la bocciatura, legittimata dalla sfilza di insufficienze, rapporti disciplinari e sospensioni. Ciro è stato sconfitto, io pure; la sufficienza in italiano, che ho dovuto imporre al consiglio di classe, rimane il segno della mia esperienza”.
Valeria e Ciro sono fra i tanti ragazzi che la città, in modo diversi, emargina, abbandonandoli alla paura e alla rabbia: eppure la città li ha visti, conosciuti, incontrati, raccogliendo la loro richiesta di aiuto e la anche la loro disponibilità ad apprendere. Ma poiché il ‘meraviglioso cambiamento’ non è avvenuto nei termini stabiliti per legge, Valeria e Ciro rientrano nel circuito dei drop-out, degli emarginati per accumulo di fallimenti nei loro compiti di sviluppo.

Forse è stata proprio la consapevolezza dolente di tanti percorsi spezzati che mi ha motivata a partecipare all’impresa di queste Giornate di studio. Esse non prendono spunto soltanto dai vari progetti Chance su cui la città ha investito negli ultimi anni, ma si configurano come una pausa di riflessione -a più voci e a più menti- che scaturisce da una molteplicità di esperienze di impegno in questo ambito.

Gli invitati sono tutti autorevoli e qualificati per motivi diversi, appartengono a vari settori scientifici e operativi, e di certo sono solo una parte di quanti avrebbero potuto a pieno titolo essere qui oggi e domani. A ciascuno va il mio autentico ringraziamento.

Il titolo di queste Giornate è molto denso: “Saperi di strada e cittadinanza dei giovani. Trame di pensiero e strutture per la promozione di nuove alleanze educative”. E’un titolo che nasce dal tentativo di esplicitare la consapevolezza, teorica e confermata sul campo, che ogni discorso educativo è complesso e politico: complesso perché non può non coinvolgere pensiero e strutture materiali; risorse esistenti e da valorizzare, come i saperi di strada appunto; obiettivi come la cittadinanza piena e attiva dei giovani, attraverso lo strumento dell’impegno di professionisti di vari ambiti per la costruzione di nuove alleanze educative; politico perché è evidente la valenza politica di qualsiasi progetto educativo che ha conseguenze a favore o contro i giovani. L‘educazione è pericolosa, come lo è la cultura in senso ampio, come lo sono l’arte, la letteratura, tutte quelle attività che possono promuovere la riflessione critica e interrompere i circuiti consueti della costruzione del facile consenso. Figuriamoci dunque una educazione intesa come sostegno allo sviluppo della persona e non come mero apprendimento di competenze, una educazione nel senso di Hanna Arendt ricordatoci da Paolo Landri nella Sessione preliminare: “L’educazione è il momento che decide se noi amiamo abbastanza il mondo da assumercene la responsabilità e salvarlo così dalla rovina, che è inevitabile senza il rinnovamento, senza l’arrivo dei giovani. Nell’educazione si decide anche se noi amiamo tanto i nostri figli da non estrometterli dal nostro mondo lasciandoli in balia di se stessi, se li amiamo tanto da non strappargli di mano la loro occasione d’intraprendere qualcosa di nuovo, qualcosa d’imprevedibile per noi: e prepararli invece al compito di rinnovare un mondo che sarà comune a tutti” (H. Arendt., Le origini del totalitarismo, 1951, tr, it. 2001, p. 244).

La Sessione preliminare delle nostre Giornate, svoltasi il 18 giugno, è stata densa quanto il titolo: i contributi dei presenti sono stati per necessità di tempo tutti molto brevi, ma ciascuno ha messo a fuoco elementi importanti dando stimoli alla riflessione comune.
Ne sintetizzo alcuni, ovviamente organizzandoli dal mio punto di vista.

La Città di Napoli ha dato vita negli anni Novanta, e dunque in un momento storico preciso con specifiche connotazioni socio-politico-culturali, ad un movimento di pensiero e di iniziative che ha coinvolto diversi soggetti agenti del mondo istituzionale (scuola, università, asl, comunità europea, comune, regione) e della società civile. L’energia che li muoveva era probabilmente il sogno comune di realizzare pratiche di educazione rivolte ai giovani del territorio che la scuola non riusciva a tener dentro (o non voleva tener dentro) ai propri percorsi standard e che finivano per essere ripetutamente emarginati. Occorreva pensare e realizzare metodologie specifiche, potendo attingere ad una immensa letteratura psicologica, pedagogica, sociologica, ad alcune esperienze esemplari precedenti, ma dovendo immaginare pratiche adatte al contesto locale. Nel pomeriggio del 18 sono stati citati, per ciò che concerne la psicologia, l’area di sviluppo prossimale (Vygotskij), lo scaffolding (Bruner), il contratto didattico (Perret-Clermont), l’apprendere dall’esperienza e le funzioni mentali (Bion), i transfert e controtransfert nella relazione educativa (da Freud a Blandino!), il pensiero narrativo (Bruner), il professionista riflessivo (Schon), l’analisi della domanda, le dinamiche collusive (Carli e Paniccia), che basterebbero da soli, nelle loro accezioni originarie e nei loro approfondimenti successivi a sostenere ogni pratica educativa attiva. A questi temi aggiungerei quello della funzione materna del curare, sostenere e contenere, rispecchiare, essere-con, che consente di poter essere creativamente piuttosto che di reagire agli urti della realtà (Winnicott); e quello delle funzione paterna, delle cui trasformazioni nella nostra società oggi molto si discute, assieme al problema dell’autorità/autorevolezza, connesso al riconoscimento o alla rimozione dei conflitti e alla conseguente gestione dell’aggressività soprattutto in adolescenza: penso ai molti contributi filosofici e di matrice psicoanalitica (ad esempio, fra i più recenti, Benasayag Eiguer, Korff-Sausse). La psicoanalisi, nelle sue declinazioni diverse, è stata più volte chiamata in causa durante la nostra Sessione preliminare, perché ha improntato e sostanziato le teorie e le metodologie di lavoro scelte ed attuate in molti progetti Chance. E’ stata infine riproposta una lettura gruppale dei sistemi di relazioni che si sono costituiti nel tempo a più strati negli stessi progetti.
In sostanza appare evidente l’impossibilità, e forse l’improduttività, di ricondurre ad una unica matrice teorica la ricchezza del patrimonio dei riferimenti scientifici che si è accumulato negli anni delle pratiche di cui parliamo.

Non ho intenzione di tracciare qui una storia dei progetti Chance o simili, non ne avrei competenza e so che questa fatica è stata svolta spesso altrove, come testimoniano diversi scritti e pubblicazioni (ad esempio quello di Carla Melazzini che ascolterete a breve). Tuttavia la nostra Sessione preliminare ha evidenziato un’importante dinamica che sembra attivarsi spesso quando si discute di quei progetti: una dinamica interno/esterno, che - alimentata e sostenuta da chi si sente dentro e da chi si sente fuori - finisce spesso per produrre celebrazioni, trasformando l’oggetto del discorso in una specie di oggetto estetico cristallizzato, da commemorare nel bene o nel male. In questa prospettiva, chi si dichiara fuori non sembra ricevere o darsi legittimità per comprendere il meraviglioso, ma anche il perturbante, delle relazioni dense che hanno caratterizzato i progetti Chance. Vorrei raccogliere uno stimolo del pomeriggio del 18, durante il quale si rammentava che nessun osservatore è completamente esterno: assunto ineludibile, al quale aggiungo che anche chi non ha partecipato al viaggio per le strade dei progetti Chance, occupandosi di esperienze simili per metodologie, obiettivi e contesti, porta ovviamente il suo contributo competente alla discussione. L’oggetto del nostro pensare insieme non è cosa siano o non siano i progetti Chance, ma quali sono i fattori da considerare ineludibili per la buona qualità di un lavoro di sostegno allo sviluppo e di promozione sociale dei giovani del nostro territorio e delle grandi aree urbane in genere; quale il comune denominatore positivo della miriade di esperienze sperimentali che si sono succedute nel tempo e in luoghi diversi ma simili? quale il grado della sua ripetibilità ed esportabilità? Forse possiamo cominciare a considerare ineludibile una metodologia che non lasci soli genitori, insegnanti ed educatori, creando spazi di riflessività indispensabile per tollerare ed elaborare le vicissitudini emotive connesse all’incertezza intrinseca delle relazioni educative, ai forti rischi di errore e fallimento, all’incontro col dolore; metodologia sostenuta dall’impegno fattivo delle istituzioni ad accorciare la distanze dell’inevitabile gap fra retoriche e pratiche.

Esiste dunque un modo – ci chiediamo qui oggi e domani - per valutare e valorizzare queste esperienze? È possibile usarle per costruire trame di pensiero e strutture che, tenendo conto dei mutamenti economici, sociali, politici, culturali, promuovano accordi ed alleanze fuori e dentro le istituzioni? Io credo che proprio in questo momento storico occorra lavorare con le istituzioni e dentro di esse, per sostenere una democrazia tutt’altro che scontata. E’ noto che le attuali scelte di presunta riforma della scuola e dell’università vanno nella direzione di non investire risorse di alcun genere per sostenere un’educazione che abbia come reale obiettivo l’allargamento della democrazia, la partecipazione in base ai talenti e ai meriti derivanti da percorsi di sviluppo di pari opportunità: nessuna risorsa economica, nessuna scelta legislativa che sostenga la necessità di formare adeguatamente gli insegnanti, all’inizio e in itinere, nessun riconoscimento del valore della continuità didattica o della necessità di orari flessibili, anzi, ogni norma sembra essere volta ad aziendalizzare i luoghi della crescita dei giovani, tecnicizzando percorsi di apprendimento e loro valutazioni. Nessuna volontà di sostenere davvero gli allievi con disabilità, considerandoli prevalentemente voci di spesa. Nessuna intenzione di porre finalmente riparo alla scandalosa assenza dello psicologo scolastico nella scuola italiana. Il 18 giugno si è detto “progetti come Chance sono ormai un lusso che non ci si può permettere”, o meglio che non ci si vuole permettere, in un Paese che è sempre più chiaramente “contro i giovani”. Eppure la generatività sociale, lo sosteneva Erickson negli anno ‘60, qualifica gli adulti come capaci di assolvere ai propri compiti di sviluppo: solo occupandosi autenticamente dei propri figli, come diceva la Arendt, e dei figli degli altri, come specificano i nostri economisti Boeri e Galasso, si investe davvero sul futuro.

Queste Giornate potrebbero autorevolmente ribadire, grazie allo spessore e alla motivazione dei partecipanti, che esiste un patrimonio di studi e ricerche in campo storico, filosofico, psicologico, pedagogico, giuridico, urbanistico che dimostra la possibilità di approntare metodi locali di sostegno allo sviluppo dei giovani, di prevenzione primaria e secondaria, di costruzione allargata della cittadinanza attiva.
La Casa blu di Chagall, che abbiamo scelto per connotare queste Giornate, sembra essere collocata in un luogo sospeso fra la periferia urbana povera e quella residenziale, in procinto di essere abbattuta o piuttosto abilmente ristrutturata: quel suo blu oltremare la colloca nello spazio onirico di cui Chagall è creatore insuperato. Nello spazio onirico vige il linguaggio simbolico, che riesce a dar forma alle esperienze emotive aggirando i limiti delle difese e delle parole. Fromm spiegava le caratteristiche del simbolismo utilizzando proprio l’esempio della periferia: “prendiamo (..) uno stato d’animo in cui ci senta perduti, abbandonati in un mondo che ci appare squallido, un po’ spaventevole, sebbene non proprio pericoloso. Volete descrivere questo stato d’animo (..) ma (..) vi trovate ad annaspare alla ricerca delle parole (..). La notte seguente fate un sogno. Vi vedete alla periferia di una città, poco prima che sorga l’alba, le strade sono deserte (..), le case hanno un aspetto misero, ciò che vi circonda vi appare estraneo, e non avete a disposizione nessuno dei soliti mezzi di trasporto per poter raggiungere luoghi a voi familiari e ai quali sentite di appartenere. Quando vi svegliate e vi ricordate del sogno, vi accorgete che la sensazione che avete provato nel sogno era esattamente quella sensazione di smarrimento e di grigiore che il giorno prima avevate cercato di descrivere..(..) Nel linguaggio simbolico le esperienze interiori vengono espresse come se fossero esperienze sensoriali” (E. Fromm, Il linguaggio dimenticato, 1951, tr. it. 1961, pp. 15-16). Le periferie sono dunque simbolicamente luoghi di smarrimento e di grigiore, in cui mancano le risorse per restare e per andar via, e nelle nostre città esistono materialmente, anche se non sono collocabili solo ai margini. Ho immaginato Valeria e Ciro soli e smarriti con la loro paura e la loro rabbia: mi sono chiesta se ci sono adulti in grado di costruire per loro, magari in quella Casa blu, un luogo in cui sentirsi al sicuro, per essere liberi di non replicare i loro modelli genitoriali. Anche l’arte può richiamarci alla responsabilità di prendere posizione rispetto alle nostre periferie interne ed esterne: per scegliere se demolire o ristrutturare le opportunità di un futuro migliore per i nostri giovani.

Percorsi spezzati e pensieri di continuità

La discussione che abbiamo svolto è stata segnata da parole dense, punti si accumulazione di conoscenze e saperi e da parole fluide, sussurri che hanno percorso come ombre – ora minacciose ora ristoratrici – i partecipanti.
Le parole dense sono le parole del fare, dell’azione organizzata di cui abbiamo bisogno per produrre azioni efficaci, per dialogare con formazioni sociali dense e stratificate, per prendere spazio nelle regioni del mondo istituito, le parole fluide sono quelle che corrono a stabilire legami invisibili, che filtrano al di la degli steccati, che sussurrano all’essere, che mobilitano i cuori.
George Steiner nella sua lettura delle Antigoni dice tra le tante preziose cose, che il conflitto tra Antigone e Creonte non è solo il conflitto tra il potere e i sentimenti, ma più al fondo rappresenta la nostalgia dell’essere razionale per i propri stati tellurici, per la sua appartenenza all’inorganico ancora prima che alla vita.
La vita nasce dal mondo liquido, dentro una miscela incoerente in cui si forma la prima catena di molecole capaci di comportarsi come membrana semi permeabile, capace di catturare dentro di sé altre molecole poi dette nutrimento e trattenerle dentro la propria configurazione.
La dinamica interno-esterno è una dinamica tellurica, che rimanda alle capacità generatrici della vita, alle dinamiche che generano la vita prima che la vita acquisti la capacità di generare.
Non c’è nessun modello fisico, nessun modello matematico o probabilistico capace di descrivere questo stato di nascita. Lo stato nascente primigenio è questo, è insieme la fluidità penetrante delle molecole elementari e lo sviluppo di catene di aggregati che si nutrono e che nutrono.
Qualsiasi movimento di pensiero, qualsiasi formazione sociale che voglia restare a contatto con lo stato nascente porta con sé la paura - la maledizione di un ritorno alla polvere incoerente, al brodo primordiale - e la gioia contagiosa della vita. La paura della morte e del degrado, e l’entusiasmo dell’eros vitale o dei legami d’amore come dice Antigone, convivono. Eros e Tanatos stanno assieme per il semplice fatto che sono indistinti e Tanatos nasce da Eros non appena questo ha compiuto la sua opera generatrice.

Se avete mai visto una animazione riguardante questo stato nascente, si vedono catene di aminoacidi che vagano in modo incoerente come alla ricerca di qualcosa ed infatti trovano un compagno o una compagna – qui il sesso non c’è ancora, ma l’eros c’è già – e proseguono insieme alla ricerca – senza saperlo- di altri accoppiamenti. E’ già una danza d’amore, un rito nuziale.
Canevaro nel suo intervento sul mito fondante dell’educazione dice che questo dovrebbe essere quello del viandante, un viandante che riassume le caratteristiche del buon samaritano, del Budda o del Cristo che ti fanno visita dentro le spoglie del viandante povero, del coureur de bois che percorre le grandi foreste del nord America - senza bagaglio - fondando su incontri arricchenti.
Ma il viandante, è anche il vagabondo (passeggero, visitatore, viaggiatore, errante, giramondo, girovago, nomade) che gli stanziali - gli abitanti delle regioni geografiche come quelli delle regioni dello spirito, dei castelli e dei feudi che popolano la psiche individuale e sociale - percepiscono come minaccia a ciò che è istituito.
Ancora George Steiner dice che i miti greci – i miti dello stato nascente – continuano a riprodursi in forme rinnovate, ma sostanzialmente senza aggiunte rispetto a un ristretto numero di miti originari. Forse, dice, l’unico nuovo mito è quello di Don Giovanni, il mito del seduttore che viola ogni vincolo stabilito, che profana le unioni consacrate, che agisce eros come forza distruttrice e che – scena finale del Don Giovanni di Mozart – viene inghiottito dalla terra dopo la stretta di mano con il convitato di pietra. La forza demoniaca di Don Giovanni è la forza demoniaca che fa nascere la vita dalla terra ed è – nelle fantasie maschili dominanti – segretamente collegabile alla capacità generatrice della donna. L’imputazione principe per le streghe è di essersi accoppiate con il diavolo.
E noi abbiamo imparato nel nostro lavoro di educatori che educazione è strettamente imparentato con seduzione, che non si da educazione se non c‘è anche un’attività seduttiva, una produzione di legami e di relazioni che si propaga secondo la logica del contagio piuttosto che secondo la logica dell’illuminazione, la logica della gestione gerarchica di relazioni stellari.
Tutto questo è la fluidità dello stato nascente, è la forza orientava, la forza di ciò che è all’origine ed è quello che fa paura a tutti gli ordini costituiti.
Dunque quello che ci dice e quello che sa fare Guelfo - e che in altri modi molti di noi hanno imparato a fare - è tenere assieme le parti: le capacità generatrici e la paura di perdersi; cioè tenere viva l’energia corrosiva di uno stato nascente dinamico. Coloro che hanno fatto lavoro educativo in condizioni estreme sono già istituzione, hanno già scritto le equazioni che governano questo stato fluido; ciò che non hanno saputo fare - e che ora insieme vogliamo imparare a fare - è governare le dinamiche intersistemiche che vengono generate da una forza fluida, trovare una collocazione spaziale e mentale che consenta insieme il contenimento e la produttività di questa energia esplosiva.
Ciò che dobbiamo aver molto chiaro è che qualsiasi iniziativa nasca dentro questo crogiuolo è per definizione una iniziativa che non può suscitare solo amore e simpatia, che genera necessariamente anche una ondata emozionale preoccupata ed avversa.
Ed è questo il senso di una presenza tra noi di specialisti di ‘gestione creativa dei conflitti’, di creazione di ‘contratti sociali locali’. Esistono già istituzioni che hanno assunto il conflitto non come ostacolo allo sviluppo ma come motore di sviluppo, che sono capaci di accogliere a trasformare con continuità lo stato di cose nascenti. Gli apparati di contenimento, riflessione, mediazione sono parti fondanti di un processo di educazione, non sono accessori, lusso o orpelli. E’ questo il motivo del contendere con le nostre istituzioni: gli apparati di riflessione che sono anche apparati di difesa della salute psichica degli operatori e apparati per lo sviluppo creativo della professionalità. In un progetto educativo tutto può - e deve – essere messo in discussione tranne che gli apparati di riflessione.

In questi due giorni noi abbiamo adottato una configurazione circolare. E’ stato motivo di impegno organizzativo e di scelta il reperimento di una sala che consentisse questa configurazione. Siamo nella sala di un senato accademico. Quegli stessi signori che se non siedono su una cattedra non parlano ai giovani, adottano per sé una configurazione circolare. Allora la circolarità non è incompatibile con l’istituzione, è incompatibile con una configurazione gerarchica del sapere. E noi abbiamo visto l’effetto di spaesamento che questa configurazione produce, la sensazione di affollamento così ben espressa da Paolo: ma come farà tutta questa gente a parlare. Sono esattamente – un po’ di meno – lo stesso numero di coloro che parlano in un convegno scientifico, solo che lì si alternano alla cattedra e ritornano tra il pubblico: e ciascuno di volta in volta è cattedratico, c’è rotazione nei ruoli ma non circolarità del sapere.
L’idea del sapere distribuito è un’idea veramente nuova. Canevaro dice: ma io non devo imparare tutto, devo imparare a stabilire legami con chi sa. Ciò che è produttivo non è il sapere ma i legami e le relazioni. E sono profondi i legami che nascono dalle cure ricorsive e  sono anche forza di resistenza. Fondamentale in tempi in cui il nulla è all’offensiva.
Dunque io credo che questa configurazione di lavoro abbia avuto pieno successo nel contaminare forme di pensiero diverse e nel ricreare la confusione propria delle situazioni oniriche che è la dimensione fusionale in cui è possibile generare qualcosa di significativo.
Ora viene la parte più difficile, raccontare il sogno che abbiamo fatto insieme. Riuscire a trovare parole ferme per una situazione fluida.

Io devo ringraziare i presenti perché in questi due giorni hanno commemorato Carla Melazzini senza commemorarla. Le parole di Carla a molti - che già le conoscevano perché le ha scritte quattro anni orsono – sono apparse nuove e straordinariamente vive, e ognuno si è rapportato a quelle parole come a parole vive. E si è ripetuto in questa occasione quell’evento straordinario a cui ci siamo abituati nelle comunità che apprendono: che le parole non siano semplicemente il veicolo di un pensiero già formulato, ma forza creatrice di un pensiero condiviso. E’ questa capacità di andare oltre il dolore, di riuscire a riprendere il filo della vita oltre la fine delle sue singole manifestazioni che occorre mettere in campo quando l’educazione in generale sembra esposta al rischio di scomparsa, quando progetti innovativi sono già stati chiusi.
L’impegno che possiamo mantenere tra noi è di costituirci come matrice generativa di progetti, dunque non la continuità di una progetto chance o di progetti chance o di progetti di cittadinanza per i giovani, ma un contenitore – i contenitori raccolgono e limitano – capace di sostenere la voglia di sognare e la capacità di progettare.
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Napoli, NA, Italy
Maestro elementare, da undici anni coordina il Progetto Chance per il recupero della dispersione scolastica; è Presidente della ONLUS Maestri di Strada ed in questa veste ha promosso e realizzato numerosi progetti educativi rivolti a giovani emarginati.