Scelte le scuole che realizzeranno Prototipi per la lotta alla
dispersione scolastica
L’orgoglio di saper fare
Sono uscite le graduatorie dei progetti Prototipo per la lotta alla dispersione scolastica. Nell’elenco delle scuole ammesse al finanziamento e che ora devono presentare un progetto esecutivo, oltre a quelle in cui sono direttamente impegnati i Maestri di Strada nella sesta municipalità di Napoli, ci sono molte scuole con le quali esistono o sono esistiti rapporti di collaborazione e di fecondo scambio in tutte le quattro regioni dell’obiettivo convergenza. La progettazione esecutiva non sarà affatto semplice: si tratta di allocare le risorse su dieci gruppi-obiettivo, di decidere su tariffe e contratti, di distribuire incarichi nei gruppi di coordinamento. So per esperienza che i più sacri principi arretrano pesantemente di fronte agli interessi e al potere, tanto più quanto più interessi e potere sono piccoli. Andremo a combattere quest’altra battaglia senza illusioni e senza rassegnazione. In venti anni di attività di formatore con i docenti e gli educatori ho incontrato ormai all’incirca diecimila docenti – da Udine a Noto – ed ovunque esistono docenti meravigliosi che da soli, in piccoli gruppi, in associazioni fanno una scuola vera che fa crescere e mette al centro la missione umana dell’insegnare. Ma ho anche incontrato tanta frustrazione, tanta difficoltà ad affermare le sane e semplici ragioni dell’educare di fronte al potere della stupidità, dell’ignoranza, della micragnosa difesa di piccoli poteri. Ed anche tanta disarmata ingenuità, tanto superficiale entusiasmo per teorie e pratiche non sufficientemente verificate; tante scelte ideologiche, ammantate di tecnicismo, inefficaci ed indimostrate. Quando non c’è un confronto continuo centrato sulle pratiche, sul rigore del metodo sperimentale, sulla responsabilità umana ed istituzionale per quel bene comune che è l’educazione dei giovani, diventa difficile discutere soprattutto quando principi e scelte si intrecciano con interessi di vario tipo. Il lavoro migliore fatto dai Maestri di Strada in questi anni è proprio il lavoro di riflessione e di documentazione sui processi educativi e sui loro risultati, su come si realizza una crescita professionale contestualizzata che si nutre delle difficoltà e dei problemi piuttosto che viverli come disagio e ostacolo da mettere da parte. E’ con questo spirito che ci stiamo preparando -non da oggi - ad affrontare una sfida complessa che riguarda l’insieme delle scuole che nei prossimi sei-sette anni saranno impegnate nella più complessa e duratura azione di lotta alla dispersione scolastica finora affrontata in Italia. Questo progetto prevede la possibilità di stabilire ‘gemellaggi’ tra scuole anche molto distanti per un confronto sulle pratiche e le metodologie. Noi siamo già idealmente gemellati con circa venti reti che risultano tra quelle che realizzeranno il progetto, con queste scuole oltre che con tutte quelle che vorranno aggiungersi, dobbiamo stabilire un dialogo permanente utilizzando il più possibile strumenti di confronto agili che non appesantiscano ulteriormente il lavoro dei docenti.
Al primo posto tra gli strumenti di coordinamento noi
consideriamo ‘il sogno’, quello che nei formulari potrebbe essere il posto
occupato dalla ‘finalità’. Il sogno serve a stabilire un contatto – ed insieme
a prendere coscienza della necessaria barriera tra emozioni e regole sociali - con
la nostra parte emozionale e tra le parti emozionali di quanti partecipano all’impresa
per costruire una alleanza tra le persone che concorrono alla realizzazione di
una missione difficile come questa. Attraverso il sogno condiviso si costruisce
una relazione di fiducia, un volersi bene che è la premessa a potersi
confrontare sui contenuti e sulle scelte operative, a poter litigare e
affrontare i conflitti con serena fiducia che porteranno a scelte migliori.
E’ con questo spirito che ripropongo le note che seguono (già pubblicate in Relazioni
Solidali - Numero 3-4 gennaio agosto 2006 - pagg 101-111) che hanno
rappresentato per chi scrive uno degli elementi costitutivi del ‘sogno’ che gli ha consentito di tenere
in piedi se stesso e tanti colleghi d’impresa quando si cominciava a capire che
il Progetto Chance sebbene si trovasse all’apice del successo ufficiale in
realtà aveva una speranza di vita limitata.
L’orgoglio di saper fare, non è solo quello
dei giovani, ma dovrebbe essere quello di insegnanti ed educatori che sanno progettare e costruire una scuola su misura dei propri
allievi invece di fare una fatica improba ed improduttiva per ficcare i giovani
in strutture precostituite a cui essi si ribellano.
Manifesto per una scuola del fare
0.
Premessa
Il giorno 26 e 27 gennaio 2006
chi scrive ha incontrato per otto ore due classi di allievi meccanici
dell’obbligo formativo presso la Fondazione Aldini Valeriani di Bologna per attivare alcune
metodologie didattiche mutuate dall’esperienza dei Maestri di Strada. Al
pomeriggio del giorno 26 ha
partecipato presso la fondazione al
Seminari di studi su “Nuovi
apprendimenti e accompagnamento al lavoro”; Il pomeriggio del 27 e nel dopo
cena ha incontrato gli educatori dell’Aldini Valeriani e vari docenti,
operatori e dirigenti legati
all’Istituzione Minguzzi. Il tema comune agli incontri con i ragazzi e
con gli operatori è: c’è un futuro per la formazione professionale, c’è un
futuro per la scuola che sappia raccogliere queste ed altre esperienze? I nostri
politici ed amministratori come si stanno muovendo? cosa ci aspettiamo da un
nuovo governo?
E’ venuto fuori in parallelo, dagli esperti e dai ragazzi, ‘l’orgoglio
del saper fare’, il piacere di maneggiare dadi e alberi motore, e un po’ per
scherzo un po’ sul serio si è detto che questo potrebbe essere il titolo di un
convegno internazionale destinato a rilanciare, con riferimenti culturali e
argomentazioni ed esperienze solide, una questione che sembra essere sempre di
più snobbata.Questi appunti scritti a caldo rappresentano un primo spunto di
riflessione per chi voglia
lavorare a questa iniziativa. Li dedico ai giovani che ho incontrato alla Fondazione Aldini Valeriani,
per ringraziarli, senza retorica e senza demagogia, di quello che mi hanno
dato, del senso di dignità e di orgoglio
che li anima: sono la testimonianza vivente che la “serie B” sta solo
nella testa e nel cuore di chi non sa guardarli. A me hanno dato una ulteriore
conferma della bontà e della universalità di un metodo semplice che caratterizza
il progetto Chance: il rispetto, la fiducia, l’accoglienza vengono ripagate dai
giovani con generosità. Questo fa la vita degna di essere vissuta anche quando fatica,
difficoltà, delusioni, sono francamente troppe.
1.
L’orgoglio di
crescere
L’orgoglio di crescere, di essere autori di se stessi, di
esserci per sé e per gli altri. La gioia e la meraviglia di essere nati.
L’orgoglio di sapersi costruire, di saper costruire legami ed amicizie, di
poter amare ed essere riamati.
Saper fare è
innanzi tutto saper essere per l’altro, saper costruire insieme, saper
collaborare con l’altro, saper stabilire legami d’amore.
Senza legami d’amore ogni altro legame è falso: i legami di
interesse, di categoria, di partito, di impresa, di professione non esistono se
al disotto non corre una relazione d’amore che sa riconoscere oltre le barriere
delle professioni e degli interessi l’esistenza di un’altra persona viva che ha amicizia per me e verso la quale ho amicizia. Poter
costruire liberamente legami ed amicizie è il primo gradino del saper fare e
del poter fare.
Costruire sé
stessi è potersi amare, sentirsi amati e poter riamare. Il comandamento
cristiano e laico di amare l’altro come se stessi è sempre più difficile da
realizzarsi perché l’amore e l’orgoglio di sé sono sempre meno diffusi.
L’orgoglio di sé viene solo dalla cooperazione e reciprocità con l’altro.
Ciascuno è sovrano e re se tale è stimato in cerchio di libere relazioni. Chi
non è sovrano è dipendente: da cose, da uomini, da coercizioni.
2. La parola ed il pensiero danno la libertà di essere autori di se stessi
Per potersi costruire è necessario il pensiero e la parola
attraverso cui il pensiero nasce. Negare la parola, negare i mezzi per parlare,
negare le relazioni dentro cui la parola nasce e diventa creazione è negare
l’esistenza umana. La prima forma del fare è l’uso creativo della parola, la
parola efficace che avvicina, che serve a tessere relazioni, a riconoscere
sentimenti ed emozioni. E’ l’uso produttivo della parola che serve a distillare concetti, a rinchiudere
l’infinita e mutevole realtà del mondo in categorie maneggevoli, di estrema
utilità pratica. E’ l’uso produttivo della parola per esprimersi, per affermare
la propria singolarità rispetto all’uniformità di un mondo di puri concetti che
noi stessi costruiamo e utilizziamo. La parola non è oggetto di studio ma è
innanzi tutto strumento di comunicazione, strumento di cooperazione, strumento
sociativo. Il divieto esplicito o implicito a parlare all’altro, a colui che è
al mio fianco, per privilegiare la relazione verticale con le gerarchie o con
il compito focalizzato è all’origine della Torre di Babele che caratterizza le
comunicazioni sociali in una società complessa. La parola distante e gerarchica
uccide la parola vicina e fraterna fino a rendere impossibile la comunicazione.
La parola ed il pensiero rendono liberi, fanno in modo che
ciascuno possa essere autore di se stesso, che ciascuno possa agire su di sé
usando come intermediario l’uscire da sé; noi ci distacchiamo dalle cose e dagli
oggetti dopo averli afferrati, e compresi: la parola ed il concetto sono libere
invenzioni dell’uomo, che aiutano a mettersi in relazione con il mondo e con se
stessi. Pensiero e parola tornano continuamente alla loro origine attraverso la
nostra stessa persona. Se si interrompe la circolarità tra oggetto, parola,
pensiero, soggetto, se si producono solo concetti a mezzo di concetti,
parola a mezzo di parole, si mette
in moto un meccanismo di alienazione intollerabile che finisce con il
disconoscimento di sé, con il disfacimento dell’io. L’orgoglio del saper fare è la rivendicazione unilaterale e non negoziabile del
diritto e dovere a ritornare all’origine, a ritornare a sé, alla costruzione di
sé.
3. Essere responsabili di sè
Il primo passo dell’esserci è poter provvedere a sé. La cura
di sé non è delegabile; la cura non è delegabile. Le relazioni di cura non
possono essere affidate a terzi perché è nella cura, che si esprime l’amore e
la reciprocità; l’unicità di ciascuno, l’essere unico per l’altro. Tutte le
organizzazioni che si fondano sull’uniformità dei propri membri: le caserme, le
scuole, le fabbriche per la produzione di massa dovrebbero mettere in campo
potenti ed attenti antidoti per combattere l’anomìa, per restituire a ciascuno
il senso della propria singolarità anche all’interno di organizzazioni
massificanti. La partecipazione, intesa come messa in gioco di sentimenti ed
emozioni personali ed irripetibili, è un obiettivo ed una missione per ogni
attività produttiva: senza partecipazione niente ha senso, niente è
significativo, niente è interessante.
E’ particolarmente grave che le attività di cura abbiano preso a prestito dalle
organizzazioni produttive in modo acritico una tecnologia dell’organizzazione
centrata sull’anonimato e sulla massificazione. Ciò che a metà del 1600 i
pedagogisti hanno salutato ingenuamente come grande conquista, - l’insegnamento
collettivo - dopo aver dato qualche frutto positivo, si rivela come una
organizzazione che finisce per negare i fini che persegue. In particolare negli ultimi decenni questa tecnologia
spersonalizzante si è estesa a tutti livelli: dalla culla alla tomba, dal tempo
libero alla scuola.
La prima forma di riappropriazione del fare è la
riappropriazione della cura. I servizi pubblici - a gestione
statale o privata poco importa – sono tali se promuovono socialità e non
se la deprimono avocando in ambiti di corta efficienza, ciò che si guadagna
solo attraverso il perdere tempo, il dedicarsi senza condizioni e senza fretta
all’altro. Se così si fa, si
spoglia la cura di tutti i connotati affettivi e relazionali, la cura delegata al servizio costruisce anomìa
ed isolamento e non socialità. Non è un servizio pubblico, ma un servizio che
aliena dal pubblico. La scuola, la formazione, compresa quella a livello
universitario e post universitario sono il luogo per eccellenza in cui occorre
riappropriarsi, in forme diverse, della dimensione della cura. Le istituzioni della formazione vanno
considerate come sottoinsieme della cura e come tali gestite con rispetto
assoluto della cura: di ciascuno per sé, di ciascuno verso l’altro, rispetto
per i titolari delle cure primarie.
4. Potersi procurare i mezzi per vivere
Il primo modo di curarsi di sé è procurarsi i mezzi per
vivere. Il primo punto di crisi della cura di sé, la prima rottura del ciclo
tra fare, dire, pensare è il danaro non guadagnato, il consumo senza
produzione. Tra l’alta finanza dei faccendieri del danaro a mezzo di danaro, e
i ragazzacci impuniti della piccola borghesia rampante c’è grande affinità:
diremo anzi che certi faccendieri sono senza dubbio ragazzacci impuniti annosi
ma non adulti. L’affermarsi di un tipo di imprenditore del tutto indifferente
alla produzione e alle finalità produttive dell’alta finanza comincia nelle
nostre case. La rivendicazione del lavoro come primo strumento per emanciparsi
dalle dipendenze e per conoscere il valore vero del danaro – lavoro umano
cristallizzato – è la rivendicazione di un diritto umano fondamentale. Il
diritto al lavoro è innanzi tutto il diritto ad affermarsi come individuo.
Occorre fornire ai giovani l’occasione di attività lavorative collegate ad un
reddito sia pure minimo. Il danaro è sotto questo aspetto uno strumento
pedagogico fondamentale ed ineliminabile. Occorre costituire agenzie per il lavoro
giovanile che consentano a ciascuno di svolgere una attività nel rispetto delle
necessità dello studio e della formazione, nel rispetto dell’integrità
psicofisica dei ragazzi ma anche nel rispetto della urgenza che essi hanno a
realizzare piccoli guadagni come passaggio essenziale della propria crescita.
Occorre quindi anche costruire agenzie finanziarie – con il contributo dei
cittadini e del sistema produttivo – che possano finanziare l’impegno dei
giovani e delle aziende che li accolgono, evitando che si
realizzino forme di sfruttamento o forme di corto circuito che sostituiscono
l’impegno formativo con il guadagno immediato.
5. Fare le cose con le proprie mani.
Il lavoro che dà luogo ad una produzione visibile e
‘commerciabile’ è il lavoro che risponde meglio all’esigenza giovanile di
bastare a sé stessi, e a provvedere a sé.
Prodotto visibile è un oggetto, materiale, ma anche un prodotto
intellettuale: prodotto visibile è uno spettacolo teatrale, è declamare in
pubblico una poesia, è esporre i propri dipinti o le proprie ceramiche, è
suonare in pubblico, è scrivere una petizione, è allevare un animale, zappare
un orto, riparare un motorino, fare la messa in piega ad una compagna,
organizzare una festa, preparare delle pizze, organizzare una proiezione e quant’altro.
Quando diciamo operatività e lavoro manuale non dobbiamo
pensare all’artigiano con la tuta blu o i ‘panni del lavoro’ ma a qualsiasi
processo in cui i giovani possano esser attivi e produttivi e che sia dotato di un supporto materiale o immateriale
che lo rende visibile agli altri e quindi a sé e quindi circolabile. La
visibilità dei prodotti è parte integrante della visibilità personale. Tappa di
un processo di affermazione del sé sociale e produttivo.
“Fare qualcosa con le proprie mani” è sinonimo di
responsabilità per ciò che si fa. Sviluppare ad ogni livello ambiti di impegno e responsabilità significa
dare risposta produttiva ed educativa ad un bisogno giovanile diffuso che
diversamente si esprime in forme contestatarie o distruttive: l’antidoto alla
autogestione e all’occupazione è occupare a ed autogestire ogni giorno spazi di
responsabilità. E’ un’illusione
pericolosa credere che i giovani siano minorenni fino a diciotto anni e che diventino
maggiorenni un secondo dopo la mezzanotte del diciottesimo anno. I giovani o
sono responsabili da sempre secondo l’età e il luogo, oppure non lo saranno
mai.
Il lavoro delle mani su supporti materiali consistenti e
pesanti è un caso particolare di
lavoro operativo che consente l’interazione forte tra l’esterno e la mente. Il
coordinamento che la mente opera sulle operazioni manuali è una delle
operazioni più significative per l’interiorizzazione di concetti scientifici e
prassi operative. I gesti semplici
e materiali, del chirurgo, dell’artista, del musicista, dell’astronauta, del
pilota hanno dietro un pensiero molto complesso. Non meno complessi sono i
gesti del falegname, del meccanico, del pasticciere: se così non fosse i lavori
manuali non richiederebbero il lungo addestramento che richiedono. L’idea che
le attività manuali possano essere attività prive di pensiero e che non
generino pensiero è un’idea da un lato razzista, dall’altro mutuata da una
immagine di lavoro parcellizzato e senza pensiero che non corrisponde al lavoro
reale se non in un tipo particolare di produzione, quella tayloristica, che da
tempo ha mostrato i propri limiti, e che è più viva nell’immaginario di docenti
ideologgizzati che non nella realtà.
Ma soprattutto il lavoro delle mani coordinate dall’occhio e
dalla mente è il cuore del metodo
sperimentale, quel metodo che consente di costruire proposizioni scientifiche
partendo dall’osservazione e non da considerazioni filosofiche; quel metodo che consente la democrazia del pensiero
consistente nel fatto che non esiste autorità che possa controvertere le
evidenze sperimentali; quel metodo che consente ad una persona giovanissima di
dare lezioni ad una anziana sulla base di dati sperimentali e che consente ad
una persona carica di anni di accettare lezioni - che non suonano irriverenza - da chi porta
nuovi dati.
6. Le competenze si sviluppano nella circolarità del sociale
La pedagogia moderna sulla base di sperimentazioni e di
osservazioni trans-culturali ha messo un punto fermo su questa questione:
l’idea che la conoscenza nasca dall’interazione puntiforme del soggetto con
l’oggetto è una idea falsa, utile per condurre studi epistemologici, ma non per
descrivere il processo reale della conoscenza che è sempre sociale. La parola
ed il pensiero esistono solo insieme; parola e concetto non sono vestiti che si
mettono addosso ad un processo muto e puramente interiore, ma sono il mezzo di
scambio ed interazione sociale e cooperativa che si costituisce anche come
forma di riflessione sul saper fare.
Nella circolarità tra oggetti, parole e pensieri, tra
conoscenze e competenze le conoscenze sono all’inizio del circuito. Le
competenze conservano gran parte della complessità del reale: hanno carattere
sociale e relazionale, sono intrise di sperimentalità e quindi di successi e
fallimenti, riguardano in egual misura la capacità di concettualizzare e di
comunicare, si articolano in rapporto alle culture professionali, ai ‘popoli’
che praticano le diverse professioni. Lavorare per competenze è molto più
difficile che lavorare per conoscenze in quanto le conoscenze, spogliate la
realtà di ogni connotazione particolaristica sono più maneggevoli,
trasferibili, stabili nel tempo: un manuale di matematica o di grammatica resta
attuale per centinaia di anni e cambia in genere solo limitatamente; i manuali
operativi dell’artigiano, dell’ingegnere, dell’avvocato vanno aggiornati
mensilmente. Il modo di ingresso nelle culture professionali conserva
necessariamente aspetti di una sorta di iniziazione ai segreti che è la
difficoltà ed il fascino dell’apprendimento delle professioni. L’ingresso nelle professioni richiede
necessariamente processi di accompagnamento che differiscono in modo
sostanziale dall’insegnamento inteso come mera trasmissione di concetti resi
autorevoli dalla posizione stessa di chi li professa: la cattedra e l’aura
protettiva che l’accademia offre a questa.
Le competenze poiché si intrecciano con i contesti di vita
sono collocate in uno spazio intermedio tra professionalità e vita vissuta:
capita che competenze professionali vengano portate nella gestione della vita
quotidiana e competenze domestiche siano portate nelle attività professionali.
Se si guarda alle competenze si scopre che esiste una sorta di
riserva sotterranea di saperi, le competenze informali e tacite, a cui si
può attingere per sviluppare un pensiero che sia indigeno, ossia legato al
vivere sociale delle persone, ,e
non un sapere straniero che aliena
dal contesto e da sé.
7. Il fascino dell’albero motore
L’albero motore
è un oggetto complesso la cui storia comincia in parallelo nelle
profondità della terra dove viene estratto carbone e ferro, e sul tavolo del
meccanico disegnatore, passando per le acciaierie di paesi lontani e per i
torni delle nostre aziende, quando riesce a trovare la sua collocazione nell’alloggiamento
si realizza una sorta di miracolo, il compimento di un disegno grandioso. Poter
compiere questa operazione con le proprie mani, sentire il motore che gira,
sedersi sul sellino della moto, verificare la potenza del motore impennandola è
inebriante: molti ragazzi lo preferiscono alla comodità del disegno tecnico, al
piacere di dare ordini al meccanico di turno. Perché tutto questo debba essere
considerato una formazione di serie B, perché questo stesso ragazzo non possa
godere della poesia di Dante, dell’arte di Van Gogh, della buona musica e di
quanto altro di vero e di bello la nostra società offre, riesce misterioso. E
perché un ragazzo appassionato di studi letterari e classici non possa
cimentarsi con compiti pratici, non possa esperire l’interazione con il lavoro
organizzato; non possa guadagnarsi del danaro indipendentemente dalle ricchezze
o dalle povertà dei genitori, risulta altrettanto misterioso.
Serve un modo di fare scuola che accolga i vissuti e le
esperienze invece che metterli tra parentesi e lasciarli fuori della porta
dell’aula. Serve un modo di insegnare che si preoccupa più del modo in cui i
giovani organizzano e
riorganizzano il materiale cognitivo che assorbono da infinite e frammentarie
comunicazioni, che non di aggiungere ulteriori voci alle enciclopedie dei
giovani. Un incontro antropologico che produce insieme un sapere più ricco, una
persona più attiva, una socialità più vasta.
8. Sviluppare conoscenze senza gerarchie
Il sapere socialmente prodotto non ha gerarchie, non conosce
santuari, non accetta autorità, se
c’è un concorso reale di conoscenze e competenze diverse a costruire il sapere
comune, non è possibile distinguere tra conoscenze necessarie ed importanti e
conoscenze secondarie. Il sapere distribuito richiede una coscienza di sé che
sia ecologica, che consideri quindi il sé calato in tutto l’insieme del processo e non solo una sua parte: è
altrettanto importante la produzione di una merce che lo smaltimento dei
rifiuti. Si rischia di più ad essere sommersi dai rifiuti che a produrre meno
merci. La coscienza che ciascuno è indispensabile conduce alla pari dignità di
ciascuna persona ossia al fatto che ciascuno deve godere di pienezza di diritti
indipendentemente dalla professione esercitata o dalle ricchezze possedute.
La fuga dal lavoro manuale è la fuga da una condizione di
inferiorità che qualche volta si ammanta di un egualitarismo al rialzo che è
altrettanto superficiale e volgare
del materialismo al ribasso e soprattutto trasforma la battaglia per una
società più giusta nella battaglia per la scalata sociale di gruppi deprivati,
lasciando liberi gli spazi che - in una concezione gerarchica - sono di basso rango, agli emarginati
del mondo, agli ultimi della economia globale: la scalata sociale degli ex
ultimi, non abolisce gli ultimi ma semplicemente li sostituisce con l’infinito
esercito di riserva reso disponibile dal dominio imperiale sul mondo povero.
L’orgoglio del saper fare, è anche l’orgoglio di un sistema di vita che
dovrebbe garantire tutti suoi membri, che non dovrebbe ricorrere
all’importazione di paria pur di mantenere un sistema di dominio rigido ed
iniquo. L’incontro culturale ed il multiculturalismo nascono dalla difesa delle radici e quindi dal
fatto che siamo capaci di curarci di noi stessi: una società che non fa figli,
che affida le cure dirette ed indirette dei figli, dei vecchi, della casa, dei
malati, del cibo, dell’alloggio, delle comunità nelle mani di paria importati,
è una società demograficamente e mentalmente già finita. Se le cose procedono
in questo modo non ci sarà né la multiculturalità, né l’incontro, né il
meticciato, ma semplicemente una Torre di Babele pronta a crollare su se
stessa.
9. I percorsi di conoscenza sono complessi e singolari
Il modello culturale e la tecnologia educativa che reggono
la scuola di tradizione idealistica, storicistica, gentiliana, il modello che
licealizza tutto il sapere, compreso quello professionale, che riduce la
cultura ai suoi distillati concettuali, filosofici e storici è un modello che
pretende di essere il più pratico di ogni altro: il sapere astratto,
concettuale, disinteressato è in fondo il sapere più pratico, quello che apre
le porte ad ogni possibile applicazione, quello che più di ogni altro dovrebbe
consentire “l’imparare ad imparare”.
Imparare ad imparare, una formula veramente universale,
amata con pari passione dai teorici del lavoratore flessibile e disponibile ai
cambiamenti decisi da chi ha il potere di farlo, dai professorini che con poche
formule ritengono di avere in pugno il mondo dello scibile e con esso il mondo
reale, dai teorici della via liceale al socialismo che vedono nel possesso di
un sapere universale la possibilità di riscatto dei gruppi emarginati; dai
bravi docenti che amano il sapere critico sopra ogni cosa. Non c’è nessun
motivo per non essere d’accordo con
questa affermazione o fare del sarcasmo, se non fosse che i diretti
interessati hanno girato le spalle a tanta perfezione da molto tempo. Questa
scuola non piace ai centomila che ogni anno la rifiutano e ancor di più non
piace ai milioni che continuano a frequentarla sempre più riottosi e sempre più
svogliati.
Il fatto è che la formula idealistica è lineare; portata
pedissequamente nel reale, finisce per essere totalmente cieca alla complessità
dei percorsi di conoscenza che sono sempre una perigliosa navigazione tra
emozioni, sentimenti, concetti, competenze, relazioni.
Soprattutto la formula idealistica nega ed impedisce
quell’emergere dell’individuo, della persona nel pieno possesso di sé che
vorrebbe costruire: è una scuola di sudditanza piuttosto che di sovranità.
Sudditanza al principio di autorità, al sapere autoreferenziale, alle verità
indimostrate ed indimostrabili che diventa prima o poi sudditanza alle autorità
costituite qualsiasi cosa esse facciano e dicano. Una sudditanza talmente forte
che impedisce di sentire il puzzo di carne bruciata che emana dalle ciminiere
di Auschwitz, perché manca l’abitudine elementare a confrontare i dati
dell’esperienza con i concetti che servono a descriverla; perché manca la
capacità di accogliere e gestire emozioni e problemi complessi.
Il modello idealistico liceale ha tenuto finché ha potuto
giovarsi di condizioni sociali e comunicative che predisponevano i giovani ad
accettare o subire il trattamento previsto. Ora tutte quelle condizioni esterne
ed interne sono cadute, la scuola
non può fare solo il lavoro cognitivo ma deve attrezzarsi per svolgere il suo
lavoro in collaborazione con altre strutture e figure professionali che si
occupano in altre forme e in altri assetti di far crescere i giovani.
Abbiamo bisogno di una scuola e di una formazione in cui sia
possibile l’avventura della conoscenza in tutta la sua complessità ed
articolazione tra concetti, competenze, relazioni. La presenza di attività
operative, di spazi di autonoma progettazione e gestione, di attività di
tirocinio ed apprendistato sia nel campo della cognizione sia nel campo dei
sentimenti e delle relazioni, sia nel campo del lavoro è il centro attorno a
cui ruotano le attività cognitive, la riflessione disciplinare.
E’ necessario avere spazi di mediazione per favorire
l’incontro con l’altro, per accogliere le culture o solo le esperienze diverse
di cui sono portatori i giovani; è necessario interagire con i contesti di vita
perché i processi di sviluppo delle competenze e delle cognizioni siano
sostenuti da adeguati riconoscimenti da parte dei titolari della cura, perché i
sogni dei genitori, degli educatori, dei giovani possano interagire a costruire
credibili progetti di vita;
occorre interagire con gli ambienti delle imprese e del lavoro affinché
la dimensione della produzione e della cooperazione siano sistematicamente
presenti in ogni livello e in ogni settore scolastico quali elementi di
qualificazione umana ed elementi essenziali per la crescita.
Occorre che in tutti gli ordini di scuola ci siano gli spazi
e le risorse per la libera espressività perché sistematicamente la dimensione
sociale si accompagni alla considerazione della singolarità di ciascuno. E’
necessario che ci siano misure di supporto alla persona che aiutino i giovani
individualmente o in gruppo a organizzare il proprio percorso in modo
equilibrato salvaguardando la mutabilità e plasticità giovanile. E’ necessario
che ciascuno possa essere assistito nel formulare un progetto che si serve di
quanto la scuola offre e non accada mai che occorra piegare il progetto
personale a imprescrutabili decisioni istituzionali.
10. La scuola del fare è possibile
Tutto questo è possibile. Viene già oggi largamente
sperimentato in settori della formazione professionale, in istituti
professionali, licei, istituti tecnici, che si sottraggono alla logica
dell’eguaglianza formale e utilizzano appieno le risorse istituzionali che pure
esistono.
Tutto questo costa anche poco in quanto mette assieme
risorse altrimenti sparse, duplicate sprecate; in quanto considerando la
complessità e la durata dei processi i vantaggi si moltiplicano.
Tutto questo rischia di essere cancellato ancora prima di
essere sviluppato perché esiste un ritardo pauroso della cultura in genere e
della cultura politica in particolare, che progetta il futuro sulla base di
pochi e stanchi stereotipi, che usa in modo acritico categorie di pensiero
prese a prestito da logiche polemiche e politiche, che dovrebbero essere
bandite dal mondo dell’educazione e della scuola. Se si ragiona per opposizioni
non si approda da nessuna parte, l’educazione è intrinsecamente
propositiva e positiva. Le logiche
oppositive, rivendicative, sindacalizzanti non aiutano a progettare e a
proporsi.
Occorre battersi con forza perché la scuola sappia dare
risposta ai bisogni giovanili e ciò passa per la creazione di una scuola di
ciascuno che abbia una autonomia spinta fino alla possibilità che ciascuno
progetti un proprio percorso.
Perché questo possa accadere senza scadere nell’anarchia o nel localismo
chiuso e corporativo è necessario sostenere i giovani attraverso figure
professionali di tipo nuovo, educative oltre che formative, in grado di
sviluppare intorno alla scuola e al giovane che cresce quella rete di relazioni
e di partecipazione che sottrae l’educazione a logiche conservatrici,
spartitorie, seduttive che sono la negazione dell’educazione. Il primo passo di
questo processo è sostenere l’ancoraggio della scuola alle pratiche e alla
operatività. Il secondo passo è fare in modo che la cultura media del cittadino
sviluppi una attenzione diversa verso la scuola e che chieda molto di più di
partecipare e decidere intorno
all’avvenire dei propri figli.
Napoli 29 gennaio 2006 Cesare
Moreno