martedì 6 luglio 2010

Percorsi spezzati



GIORNATE di STUDIO

Saperi di strada
e cittadinanza attiva

Trame di pensiero e strutture
per la promozione di nuove alleanze educative

Napoli 2-3 luglio 2010   


PERCORSI SPEZZATI. Una Casa blu da demolire o ristrutturare

Introduzione di Santa Parrello
(Dipartimento di Scienze relazionali G. Iacono - Università degli Studi di Napoli Federico II)
Intervento di chiusura di Cesare Moreno, maestro di strada

Quando l’Associazione Maestri di Strada mi ha invitata a collaborare al coordinamento scientifico di queste Giornate, mentre facevo una serie di riflessioni professionali sono ritornata con la memoria ad un breve periodo di qualche anno fa.
Ero, per una manciata di ore, la psicologa di un gruppo di 10 adolescenti inseriti in un percorso di lotta alla dispersione scolastica. La tutor andava la mattina quasi casa per casa a svegliare i ragazzi, di età compresa fra i 15 e i 19 anni. Facevo con loro il tragitto dal centro storico alla scuola agraria che ci ospitava un po’ fuori città. In quel pulmino ho scoperto le ricorrenze statisticamente significative dei testi di molte canzoni dei neomelodici napoletani, chiaramente centrati sul tema della gelosia, del tradimento, del matrimonio infelice. Le ragazze erano 3. Le nostre discussioni di gruppo faticose, ma io apprendevo molto, quasi come un antropologo su marte: esploravo pianeti dai codici culturali lontanissimi dai miei, eppure le dinamiche adolescenziali mi sembravano note.
Una mattina una delle ragazze mi diede furtivamente una lettera: mi raccontava il suo fidanzamento ‘in casa’ con un ragazzo che ben presto si era rivelato gelosissimo e violento, secondo un canone che tuttavia non la stupiva. E’ consuetudine in certi contesti che i genitori passino ai fidanzati delle figlie il controllo sul loro comportamento di giovani donne, senza aver troppa cura dell’eventuale violenza con cui esso si esercita. Il problema narrato nella lettera era dunque apparentemente un altro, e cioè l’incontro inatteso con un coetaneo, più gentile e sensibile del fidanzato, dal quale la ragazza si sentiva attratta e per questo confessava il suo insopportabile senso di colpa. Da poco si era verificato un fatto di cronaca cittadina, del quale avevamo discusso nel gruppo: l’omicidio per accoltellamento di un adolescente che aveva osato ‘guardare’ la fidanzata di un altro… Invitai la giovane ad un colloquio su una panchina riparata dell’enorme giardino della scuola, non c’erano altri spazi.. era molto spaventata ma non tanto da non provare a chiedere aiuto. Tuttavia le mie ore previste dal progetto erano quasi terminate. Cercai modalità di prosieguo, inutilmente. Ho avuto notizie di Valeria due anni dopo, per caso: era rimasta incinta di un uomo sposato molto più grande di lei ed era fuggita di casa da sola.. non aveva concluso il suo percorso formativo. Neanch’io: avevo infatti la netta sensazione di un lavoro spezzato, nel quale avevo lasciato intravedere altre possibilità senza poterle poi sostenere. Non so in che modo il legislatore dell’obbligo formativo avesse immaginato quel ruolo di psicologo a ore…. Sta di fatto che ho sempre compreso a fondo, credo, gli insegnanti precari che hanno poi lavorato con me, quando raccontavano di percorsi spezzati dal mancato riconoscimento della necessità di continuità didattica. Non si tratta solo di difficoltà a separarsi, a riconoscere i limiti, ma di consapevolezza del fatto che dopo ci sarà un vuoto, per giovani già avvezzi alla solitudine ed alla gestione troppo precoce di problemi da adulti.
I miei insegnanti, alle prese con la prima formazione SICSI, o con corsi abilitanti dopo un decennio di lavoro da supplenti o da insegnanti che hanno scelto il sostegno per necessità di lavoro, i miei insegnanti delle scuole cosiddette normali o a rischio, hanno sempre generosamente raccontato la quotidianità difficile eppure talvolta entusiasmante, le fatiche, le paure, le frustrazioni, le sconfitte, ma anche la tenacia e le soddisfazioni. Nelle loro narrazioni (strumento prezioso di formazione e di ricerca) mi è sempre sembrato si potesse vedere bene la realtà della scuola italiana, che consente aree di normalità e di eccellenza, ma che soprattutto sancisce e amplifica le diseguaglianze, discrimina, spreca: spreca le capacità dei docenti lasciandoli soli, spreca le potenzialità degli allievi che potrebbero essere sostenute. Fra i tantissimi racconti che ho stimolato, ascoltato ed utilizzato nella formazione degli insegnanti, c’è quello dell’incontro con Ciro: “lo scorso anno ho avuto una supplenza annuale - scriveva la docente - 7 ore di lettere in una prima media.(..). I colleghi mi hanno già parlato di Ciro: il padre è rimasto ucciso in un conflitto a fuoco, vive con la madre e con due fratelli. Ci accomuna un peccato d’origine: entrambi proveniamo dalla periferia napoletana ed io che ne sono uscita, ricordo ancora quel senso di inadeguatezza che ti assale di fronte ai compagni del Vomero quando dici che abiti a Secondigliano. Parto da lì, da questo luogo sinonimo di emarginazione, per fargli capire che per me non è un “alieno”, che mi importa di lui, che lo considero intelligente e degno di rispetto come tutti gli altri, non uno scarto o peggio un numero che ti consente di formare o meno una classe. Iniziamo a negoziare i ruoli, non mi riconosce l’autorità di insegnante e allora scendiamo a patti (..). E così su queste negoziazioni quotidiane è trascorso un anno scolastico; a volte Ciro si è impegnato, si è interessato a qualche lettura, l’ho visto incantarsi di fronte alle “Fiabe campane” raccolte da Roberto de Simone; altre volte ha vinto la spinta eversiva, quell’essere rabbiosamente contro, fuori dalle regole e dagli schemi che accomuna le storie di questi ragazzi. (..) Ma alla fine dell’anno, inesorabile, è arrivata la bocciatura, legittimata dalla sfilza di insufficienze, rapporti disciplinari e sospensioni. Ciro è stato sconfitto, io pure; la sufficienza in italiano, che ho dovuto imporre al consiglio di classe, rimane il segno della mia esperienza”.
Valeria e Ciro sono fra i tanti ragazzi che la città, in modo diversi, emargina, abbandonandoli alla paura e alla rabbia: eppure la città li ha visti, conosciuti, incontrati, raccogliendo la loro richiesta di aiuto e la anche la loro disponibilità ad apprendere. Ma poiché il ‘meraviglioso cambiamento’ non è avvenuto nei termini stabiliti per legge, Valeria e Ciro rientrano nel circuito dei drop-out, degli emarginati per accumulo di fallimenti nei loro compiti di sviluppo.

Forse è stata proprio la consapevolezza dolente di tanti percorsi spezzati che mi ha motivata a partecipare all’impresa di queste Giornate di studio. Esse non prendono spunto soltanto dai vari progetti Chance su cui la città ha investito negli ultimi anni, ma si configurano come una pausa di riflessione -a più voci e a più menti- che scaturisce da una molteplicità di esperienze di impegno in questo ambito.

Gli invitati sono tutti autorevoli e qualificati per motivi diversi, appartengono a vari settori scientifici e operativi, e di certo sono solo una parte di quanti avrebbero potuto a pieno titolo essere qui oggi e domani. A ciascuno va il mio autentico ringraziamento.

Il titolo di queste Giornate è molto denso: “Saperi di strada e cittadinanza dei giovani. Trame di pensiero e strutture per la promozione di nuove alleanze educative”. E’un titolo che nasce dal tentativo di esplicitare la consapevolezza, teorica e confermata sul campo, che ogni discorso educativo è complesso e politico: complesso perché non può non coinvolgere pensiero e strutture materiali; risorse esistenti e da valorizzare, come i saperi di strada appunto; obiettivi come la cittadinanza piena e attiva dei giovani, attraverso lo strumento dell’impegno di professionisti di vari ambiti per la costruzione di nuove alleanze educative; politico perché è evidente la valenza politica di qualsiasi progetto educativo che ha conseguenze a favore o contro i giovani. L‘educazione è pericolosa, come lo è la cultura in senso ampio, come lo sono l’arte, la letteratura, tutte quelle attività che possono promuovere la riflessione critica e interrompere i circuiti consueti della costruzione del facile consenso. Figuriamoci dunque una educazione intesa come sostegno allo sviluppo della persona e non come mero apprendimento di competenze, una educazione nel senso di Hanna Arendt ricordatoci da Paolo Landri nella Sessione preliminare: “L’educazione è il momento che decide se noi amiamo abbastanza il mondo da assumercene la responsabilità e salvarlo così dalla rovina, che è inevitabile senza il rinnovamento, senza l’arrivo dei giovani. Nell’educazione si decide anche se noi amiamo tanto i nostri figli da non estrometterli dal nostro mondo lasciandoli in balia di se stessi, se li amiamo tanto da non strappargli di mano la loro occasione d’intraprendere qualcosa di nuovo, qualcosa d’imprevedibile per noi: e prepararli invece al compito di rinnovare un mondo che sarà comune a tutti” (H. Arendt., Le origini del totalitarismo, 1951, tr, it. 2001, p. 244).

La Sessione preliminare delle nostre Giornate, svoltasi il 18 giugno, è stata densa quanto il titolo: i contributi dei presenti sono stati per necessità di tempo tutti molto brevi, ma ciascuno ha messo a fuoco elementi importanti dando stimoli alla riflessione comune.
Ne sintetizzo alcuni, ovviamente organizzandoli dal mio punto di vista.

La Città di Napoli ha dato vita negli anni Novanta, e dunque in un momento storico preciso con specifiche connotazioni socio-politico-culturali, ad un movimento di pensiero e di iniziative che ha coinvolto diversi soggetti agenti del mondo istituzionale (scuola, università, asl, comunità europea, comune, regione) e della società civile. L’energia che li muoveva era probabilmente il sogno comune di realizzare pratiche di educazione rivolte ai giovani del territorio che la scuola non riusciva a tener dentro (o non voleva tener dentro) ai propri percorsi standard e che finivano per essere ripetutamente emarginati. Occorreva pensare e realizzare metodologie specifiche, potendo attingere ad una immensa letteratura psicologica, pedagogica, sociologica, ad alcune esperienze esemplari precedenti, ma dovendo immaginare pratiche adatte al contesto locale. Nel pomeriggio del 18 sono stati citati, per ciò che concerne la psicologia, l’area di sviluppo prossimale (Vygotskij), lo scaffolding (Bruner), il contratto didattico (Perret-Clermont), l’apprendere dall’esperienza e le funzioni mentali (Bion), i transfert e controtransfert nella relazione educativa (da Freud a Blandino!), il pensiero narrativo (Bruner), il professionista riflessivo (Schon), l’analisi della domanda, le dinamiche collusive (Carli e Paniccia), che basterebbero da soli, nelle loro accezioni originarie e nei loro approfondimenti successivi a sostenere ogni pratica educativa attiva. A questi temi aggiungerei quello della funzione materna del curare, sostenere e contenere, rispecchiare, essere-con, che consente di poter essere creativamente piuttosto che di reagire agli urti della realtà (Winnicott); e quello delle funzione paterna, delle cui trasformazioni nella nostra società oggi molto si discute, assieme al problema dell’autorità/autorevolezza, connesso al riconoscimento o alla rimozione dei conflitti e alla conseguente gestione dell’aggressività soprattutto in adolescenza: penso ai molti contributi filosofici e di matrice psicoanalitica (ad esempio, fra i più recenti, Benasayag Eiguer, Korff-Sausse). La psicoanalisi, nelle sue declinazioni diverse, è stata più volte chiamata in causa durante la nostra Sessione preliminare, perché ha improntato e sostanziato le teorie e le metodologie di lavoro scelte ed attuate in molti progetti Chance. E’ stata infine riproposta una lettura gruppale dei sistemi di relazioni che si sono costituiti nel tempo a più strati negli stessi progetti.
In sostanza appare evidente l’impossibilità, e forse l’improduttività, di ricondurre ad una unica matrice teorica la ricchezza del patrimonio dei riferimenti scientifici che si è accumulato negli anni delle pratiche di cui parliamo.

Non ho intenzione di tracciare qui una storia dei progetti Chance o simili, non ne avrei competenza e so che questa fatica è stata svolta spesso altrove, come testimoniano diversi scritti e pubblicazioni (ad esempio quello di Carla Melazzini che ascolterete a breve). Tuttavia la nostra Sessione preliminare ha evidenziato un’importante dinamica che sembra attivarsi spesso quando si discute di quei progetti: una dinamica interno/esterno, che - alimentata e sostenuta da chi si sente dentro e da chi si sente fuori - finisce spesso per produrre celebrazioni, trasformando l’oggetto del discorso in una specie di oggetto estetico cristallizzato, da commemorare nel bene o nel male. In questa prospettiva, chi si dichiara fuori non sembra ricevere o darsi legittimità per comprendere il meraviglioso, ma anche il perturbante, delle relazioni dense che hanno caratterizzato i progetti Chance. Vorrei raccogliere uno stimolo del pomeriggio del 18, durante il quale si rammentava che nessun osservatore è completamente esterno: assunto ineludibile, al quale aggiungo che anche chi non ha partecipato al viaggio per le strade dei progetti Chance, occupandosi di esperienze simili per metodologie, obiettivi e contesti, porta ovviamente il suo contributo competente alla discussione. L’oggetto del nostro pensare insieme non è cosa siano o non siano i progetti Chance, ma quali sono i fattori da considerare ineludibili per la buona qualità di un lavoro di sostegno allo sviluppo e di promozione sociale dei giovani del nostro territorio e delle grandi aree urbane in genere; quale il comune denominatore positivo della miriade di esperienze sperimentali che si sono succedute nel tempo e in luoghi diversi ma simili? quale il grado della sua ripetibilità ed esportabilità? Forse possiamo cominciare a considerare ineludibile una metodologia che non lasci soli genitori, insegnanti ed educatori, creando spazi di riflessività indispensabile per tollerare ed elaborare le vicissitudini emotive connesse all’incertezza intrinseca delle relazioni educative, ai forti rischi di errore e fallimento, all’incontro col dolore; metodologia sostenuta dall’impegno fattivo delle istituzioni ad accorciare la distanze dell’inevitabile gap fra retoriche e pratiche.

Esiste dunque un modo – ci chiediamo qui oggi e domani - per valutare e valorizzare queste esperienze? È possibile usarle per costruire trame di pensiero e strutture che, tenendo conto dei mutamenti economici, sociali, politici, culturali, promuovano accordi ed alleanze fuori e dentro le istituzioni? Io credo che proprio in questo momento storico occorra lavorare con le istituzioni e dentro di esse, per sostenere una democrazia tutt’altro che scontata. E’ noto che le attuali scelte di presunta riforma della scuola e dell’università vanno nella direzione di non investire risorse di alcun genere per sostenere un’educazione che abbia come reale obiettivo l’allargamento della democrazia, la partecipazione in base ai talenti e ai meriti derivanti da percorsi di sviluppo di pari opportunità: nessuna risorsa economica, nessuna scelta legislativa che sostenga la necessità di formare adeguatamente gli insegnanti, all’inizio e in itinere, nessun riconoscimento del valore della continuità didattica o della necessità di orari flessibili, anzi, ogni norma sembra essere volta ad aziendalizzare i luoghi della crescita dei giovani, tecnicizzando percorsi di apprendimento e loro valutazioni. Nessuna volontà di sostenere davvero gli allievi con disabilità, considerandoli prevalentemente voci di spesa. Nessuna intenzione di porre finalmente riparo alla scandalosa assenza dello psicologo scolastico nella scuola italiana. Il 18 giugno si è detto “progetti come Chance sono ormai un lusso che non ci si può permettere”, o meglio che non ci si vuole permettere, in un Paese che è sempre più chiaramente “contro i giovani”. Eppure la generatività sociale, lo sosteneva Erickson negli anno ‘60, qualifica gli adulti come capaci di assolvere ai propri compiti di sviluppo: solo occupandosi autenticamente dei propri figli, come diceva la Arendt, e dei figli degli altri, come specificano i nostri economisti Boeri e Galasso, si investe davvero sul futuro.

Queste Giornate potrebbero autorevolmente ribadire, grazie allo spessore e alla motivazione dei partecipanti, che esiste un patrimonio di studi e ricerche in campo storico, filosofico, psicologico, pedagogico, giuridico, urbanistico che dimostra la possibilità di approntare metodi locali di sostegno allo sviluppo dei giovani, di prevenzione primaria e secondaria, di costruzione allargata della cittadinanza attiva.
La Casa blu di Chagall, che abbiamo scelto per connotare queste Giornate, sembra essere collocata in un luogo sospeso fra la periferia urbana povera e quella residenziale, in procinto di essere abbattuta o piuttosto abilmente ristrutturata: quel suo blu oltremare la colloca nello spazio onirico di cui Chagall è creatore insuperato. Nello spazio onirico vige il linguaggio simbolico, che riesce a dar forma alle esperienze emotive aggirando i limiti delle difese e delle parole. Fromm spiegava le caratteristiche del simbolismo utilizzando proprio l’esempio della periferia: “prendiamo (..) uno stato d’animo in cui ci senta perduti, abbandonati in un mondo che ci appare squallido, un po’ spaventevole, sebbene non proprio pericoloso. Volete descrivere questo stato d’animo (..) ma (..) vi trovate ad annaspare alla ricerca delle parole (..). La notte seguente fate un sogno. Vi vedete alla periferia di una città, poco prima che sorga l’alba, le strade sono deserte (..), le case hanno un aspetto misero, ciò che vi circonda vi appare estraneo, e non avete a disposizione nessuno dei soliti mezzi di trasporto per poter raggiungere luoghi a voi familiari e ai quali sentite di appartenere. Quando vi svegliate e vi ricordate del sogno, vi accorgete che la sensazione che avete provato nel sogno era esattamente quella sensazione di smarrimento e di grigiore che il giorno prima avevate cercato di descrivere..(..) Nel linguaggio simbolico le esperienze interiori vengono espresse come se fossero esperienze sensoriali” (E. Fromm, Il linguaggio dimenticato, 1951, tr. it. 1961, pp. 15-16). Le periferie sono dunque simbolicamente luoghi di smarrimento e di grigiore, in cui mancano le risorse per restare e per andar via, e nelle nostre città esistono materialmente, anche se non sono collocabili solo ai margini. Ho immaginato Valeria e Ciro soli e smarriti con la loro paura e la loro rabbia: mi sono chiesta se ci sono adulti in grado di costruire per loro, magari in quella Casa blu, un luogo in cui sentirsi al sicuro, per essere liberi di non replicare i loro modelli genitoriali. Anche l’arte può richiamarci alla responsabilità di prendere posizione rispetto alle nostre periferie interne ed esterne: per scegliere se demolire o ristrutturare le opportunità di un futuro migliore per i nostri giovani.

Percorsi spezzati e pensieri di continuità

La discussione che abbiamo svolto è stata segnata da parole dense, punti si accumulazione di conoscenze e saperi e da parole fluide, sussurri che hanno percorso come ombre – ora minacciose ora ristoratrici – i partecipanti.
Le parole dense sono le parole del fare, dell’azione organizzata di cui abbiamo bisogno per produrre azioni efficaci, per dialogare con formazioni sociali dense e stratificate, per prendere spazio nelle regioni del mondo istituito, le parole fluide sono quelle che corrono a stabilire legami invisibili, che filtrano al di la degli steccati, che sussurrano all’essere, che mobilitano i cuori.
George Steiner nella sua lettura delle Antigoni dice tra le tante preziose cose, che il conflitto tra Antigone e Creonte non è solo il conflitto tra il potere e i sentimenti, ma più al fondo rappresenta la nostalgia dell’essere razionale per i propri stati tellurici, per la sua appartenenza all’inorganico ancora prima che alla vita.
La vita nasce dal mondo liquido, dentro una miscela incoerente in cui si forma la prima catena di molecole capaci di comportarsi come membrana semi permeabile, capace di catturare dentro di sé altre molecole poi dette nutrimento e trattenerle dentro la propria configurazione.
La dinamica interno-esterno è una dinamica tellurica, che rimanda alle capacità generatrici della vita, alle dinamiche che generano la vita prima che la vita acquisti la capacità di generare.
Non c’è nessun modello fisico, nessun modello matematico o probabilistico capace di descrivere questo stato di nascita. Lo stato nascente primigenio è questo, è insieme la fluidità penetrante delle molecole elementari e lo sviluppo di catene di aggregati che si nutrono e che nutrono.
Qualsiasi movimento di pensiero, qualsiasi formazione sociale che voglia restare a contatto con lo stato nascente porta con sé la paura - la maledizione di un ritorno alla polvere incoerente, al brodo primordiale - e la gioia contagiosa della vita. La paura della morte e del degrado, e l’entusiasmo dell’eros vitale o dei legami d’amore come dice Antigone, convivono. Eros e Tanatos stanno assieme per il semplice fatto che sono indistinti e Tanatos nasce da Eros non appena questo ha compiuto la sua opera generatrice.

Se avete mai visto una animazione riguardante questo stato nascente, si vedono catene di aminoacidi che vagano in modo incoerente come alla ricerca di qualcosa ed infatti trovano un compagno o una compagna – qui il sesso non c’è ancora, ma l’eros c’è già – e proseguono insieme alla ricerca – senza saperlo- di altri accoppiamenti. E’ già una danza d’amore, un rito nuziale.
Canevaro nel suo intervento sul mito fondante dell’educazione dice che questo dovrebbe essere quello del viandante, un viandante che riassume le caratteristiche del buon samaritano, del Budda o del Cristo che ti fanno visita dentro le spoglie del viandante povero, del coureur de bois che percorre le grandi foreste del nord America - senza bagaglio - fondando su incontri arricchenti.
Ma il viandante, è anche il vagabondo (passeggero, visitatore, viaggiatore, errante, giramondo, girovago, nomade) che gli stanziali - gli abitanti delle regioni geografiche come quelli delle regioni dello spirito, dei castelli e dei feudi che popolano la psiche individuale e sociale - percepiscono come minaccia a ciò che è istituito.
Ancora George Steiner dice che i miti greci – i miti dello stato nascente – continuano a riprodursi in forme rinnovate, ma sostanzialmente senza aggiunte rispetto a un ristretto numero di miti originari. Forse, dice, l’unico nuovo mito è quello di Don Giovanni, il mito del seduttore che viola ogni vincolo stabilito, che profana le unioni consacrate, che agisce eros come forza distruttrice e che – scena finale del Don Giovanni di Mozart – viene inghiottito dalla terra dopo la stretta di mano con il convitato di pietra. La forza demoniaca di Don Giovanni è la forza demoniaca che fa nascere la vita dalla terra ed è – nelle fantasie maschili dominanti – segretamente collegabile alla capacità generatrice della donna. L’imputazione principe per le streghe è di essersi accoppiate con il diavolo.
E noi abbiamo imparato nel nostro lavoro di educatori che educazione è strettamente imparentato con seduzione, che non si da educazione se non c‘è anche un’attività seduttiva, una produzione di legami e di relazioni che si propaga secondo la logica del contagio piuttosto che secondo la logica dell’illuminazione, la logica della gestione gerarchica di relazioni stellari.
Tutto questo è la fluidità dello stato nascente, è la forza orientava, la forza di ciò che è all’origine ed è quello che fa paura a tutti gli ordini costituiti.
Dunque quello che ci dice e quello che sa fare Guelfo - e che in altri modi molti di noi hanno imparato a fare - è tenere assieme le parti: le capacità generatrici e la paura di perdersi; cioè tenere viva l’energia corrosiva di uno stato nascente dinamico. Coloro che hanno fatto lavoro educativo in condizioni estreme sono già istituzione, hanno già scritto le equazioni che governano questo stato fluido; ciò che non hanno saputo fare - e che ora insieme vogliamo imparare a fare - è governare le dinamiche intersistemiche che vengono generate da una forza fluida, trovare una collocazione spaziale e mentale che consenta insieme il contenimento e la produttività di questa energia esplosiva.
Ciò che dobbiamo aver molto chiaro è che qualsiasi iniziativa nasca dentro questo crogiuolo è per definizione una iniziativa che non può suscitare solo amore e simpatia, che genera necessariamente anche una ondata emozionale preoccupata ed avversa.
Ed è questo il senso di una presenza tra noi di specialisti di ‘gestione creativa dei conflitti’, di creazione di ‘contratti sociali locali’. Esistono già istituzioni che hanno assunto il conflitto non come ostacolo allo sviluppo ma come motore di sviluppo, che sono capaci di accogliere a trasformare con continuità lo stato di cose nascenti. Gli apparati di contenimento, riflessione, mediazione sono parti fondanti di un processo di educazione, non sono accessori, lusso o orpelli. E’ questo il motivo del contendere con le nostre istituzioni: gli apparati di riflessione che sono anche apparati di difesa della salute psichica degli operatori e apparati per lo sviluppo creativo della professionalità. In un progetto educativo tutto può - e deve – essere messo in discussione tranne che gli apparati di riflessione.

In questi due giorni noi abbiamo adottato una configurazione circolare. E’ stato motivo di impegno organizzativo e di scelta il reperimento di una sala che consentisse questa configurazione. Siamo nella sala di un senato accademico. Quegli stessi signori che se non siedono su una cattedra non parlano ai giovani, adottano per sé una configurazione circolare. Allora la circolarità non è incompatibile con l’istituzione, è incompatibile con una configurazione gerarchica del sapere. E noi abbiamo visto l’effetto di spaesamento che questa configurazione produce, la sensazione di affollamento così ben espressa da Paolo: ma come farà tutta questa gente a parlare. Sono esattamente – un po’ di meno – lo stesso numero di coloro che parlano in un convegno scientifico, solo che lì si alternano alla cattedra e ritornano tra il pubblico: e ciascuno di volta in volta è cattedratico, c’è rotazione nei ruoli ma non circolarità del sapere.
L’idea del sapere distribuito è un’idea veramente nuova. Canevaro dice: ma io non devo imparare tutto, devo imparare a stabilire legami con chi sa. Ciò che è produttivo non è il sapere ma i legami e le relazioni. E sono profondi i legami che nascono dalle cure ricorsive e  sono anche forza di resistenza. Fondamentale in tempi in cui il nulla è all’offensiva.
Dunque io credo che questa configurazione di lavoro abbia avuto pieno successo nel contaminare forme di pensiero diverse e nel ricreare la confusione propria delle situazioni oniriche che è la dimensione fusionale in cui è possibile generare qualcosa di significativo.
Ora viene la parte più difficile, raccontare il sogno che abbiamo fatto insieme. Riuscire a trovare parole ferme per una situazione fluida.

Io devo ringraziare i presenti perché in questi due giorni hanno commemorato Carla Melazzini senza commemorarla. Le parole di Carla a molti - che già le conoscevano perché le ha scritte quattro anni orsono – sono apparse nuove e straordinariamente vive, e ognuno si è rapportato a quelle parole come a parole vive. E si è ripetuto in questa occasione quell’evento straordinario a cui ci siamo abituati nelle comunità che apprendono: che le parole non siano semplicemente il veicolo di un pensiero già formulato, ma forza creatrice di un pensiero condiviso. E’ questa capacità di andare oltre il dolore, di riuscire a riprendere il filo della vita oltre la fine delle sue singole manifestazioni che occorre mettere in campo quando l’educazione in generale sembra esposta al rischio di scomparsa, quando progetti innovativi sono già stati chiusi.
L’impegno che possiamo mantenere tra noi è di costituirci come matrice generativa di progetti, dunque non la continuità di una progetto chance o di progetti chance o di progetti di cittadinanza per i giovani, ma un contenitore – i contenitori raccolgono e limitano – capace di sostenere la voglia di sognare e la capacità di progettare.
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Napoli, NA, Italy
Maestro elementare, da undici anni coordina il Progetto Chance per il recupero della dispersione scolastica; è Presidente della ONLUS Maestri di Strada ed in questa veste ha promosso e realizzato numerosi progetti educativi rivolti a giovani emarginati.