sabato 29 agosto 2009

Tre richieste

Consiglio di ascoltare la lunga intervista telefonica di Marco (Intervista a Marco Rossi Doria) sulla situazione politica napoletana e meridionale che mi sembra molto ricca. In fondo all'intevista Marco si pronuncia sulle mie tre richieste che probabilmente ha letto fuori del contesto. Penso sia utile fornire a tutti dei chiarimenti:

  1. ho chiesto una valutazione del progetto che risponda alla domanda se sia o meno il caso di generalizzarlo. Che il progetto sia ricco di riconoscimenti scientifici mi è ben noto avendo contribuito a fare in modo che accadesse; ciò che invece non è mai stato oggetto non dico di valutazione, ma di considerazione è la sua fattibilità in modo generale. Spesso i riconoscimenti, le medaglie, le esaltazioni hanno contribuito a incapsulare iil progetto in un'aura di irripetibilità che è l'opposto di ciò che vogliamo.
  2. ho chiesto che qualche politico si occupi seriamente di una politica con i giovani e non un politico che si occupi di Chance. Di Chance si occupano fin troppo quando si tratta di giocarlo in quelle partite di mala politica di cui parla molto acutamente Marco. La mia richiesta, era molto chiaro nel contesto, riguardava appunto un politica generale con i giovani che fosse lo sfondo in cui devono operare le politiche formative e le attività di inclusione sociale per giovani altrimenti esclusi
  3. ho chiesto un "project manager" e qui la mala parola, da me usata di proposito, alimenta reazioni automatiche. Il progetto Chance quest'anno ha amministrato 1,3  milioni di euro in modo diretto, oltre 500.000€ valgono gli stipendi statali pagati e alcune centinaia di migliaia gli euro vale l'uso delle strutture e delle attrezzature delle scuole; ha fatto una decina tra bandi e gare di appalto; ha stipulato alcune centinaia di contratti a persone e ditte; ha svolto 12.000 ore di attività. Un volume di attività enorme che richiede pianificazione, rispetto dei tempi, responsabilità. Eppure questo progetto non dispone di un direttore generale (forse l'espressione è meno irritante di project manager): c'è un preside che risponde della amministrazione dei docenti statali mentre è impegnato a gestire una scuola con centinaia di docenti e migliaia di alunni oltre a svariati progetti europei ed iniziative ministeriali; c'è un direttore dei servizi amministrativi che si occupa di rispettare le procedure e rendicontare la spesa e c'è infine un coordinamento pedagogico costituito da due insegnanti e da una 'preside a contratto'  ossia una preside in pensione con un contratto di collaborazione. Quest'ultimo gruppo è 'autopromosso', dispone a malapena di una delega del preside a gestire operativamente il progetto, ma non ha nè il rango, nè il potere che spetterebbe a una persona o a un gruppo che sia il reale coordinamento del progetto. Un direttore generale  vero deve rispondere dei risultati e del buon impiego dei danari pubblici ( e non solo di aver rispettato le procedure), deve promuovere il progetto in funzione dell'obiettivo della sua generalizzazione; come dico nella mia richiesta deve essere disponibile all'invenzione e al rischio. Può essere anche uno di noi che ha imparato e ha dimostrato di saper gestire questa enorme complessità. Meglio ancora dovrebbe essere un gruppo, un vero e proprio consiglio d'amministrazione, con diverse competenze che affronti in modo organizzato la complessità del progetto strategico collegato al piccolo progetto Chance. Questo è un passaggio indispensabile perché si passi da una idea-progetto generale, che ormai esiste ed è riconosciuta, a un progetto reale in grado di investire progressivamente tutte le situazioni in cui è opportuno che si realizzi.
Le cose che in questo momento ho cominciato a discutere con la Regione sono di questo tipo. Già l'anno scorso ci è stato chiesto un raddoppi e ora una ulteriore generalizzazione. Naturalmente occorre fare i conti con i tempi tecnici della Regione e con la reale disponibilità di risorse finanziarie, tuttavia si va in direzione della costituzione di un servizio e non nella direzione di una realizzazione effimera di un progetto prestigioso. 
Dunque la questione è questa: c'è un tipo di politica che Marco ha descritto molto bene che a un certo punto per sua necessità ha bisogno di mettere il suo marchio su iniziative prodotte dalla società civile; le iniziative a loro volta hanno un bisogno vitale di riconoscimento istituzionale dunque è possibile un incontro.
Questi incontri possono finire in due modi: 
  1. Primo: i promotori dell'iniziativa vengono cooptati come consulenti, consiglieri responsabili di un qualche servizio e costoro identificano il progresso della loro causa con il progresso della propria carriera. In questo modo non si perde  un pezzo del progetto, ma si perde la forza che ti ha portato fino a quel punto.
  2. Secondo i promotori dell'iniziativa cercano di promuove e generalizzare il metodo e l'organizzazione pratica che è in grado di attuare quel metodo. L'impresa è molto più difficile ma può riuscire se chi si propone ha sufficiente fiducia  nelle cose su sui ha lavorato ed è in grado di pretendere il rispetto per la propria professionalità.
Personalmente ho fatto più volte esperienza  di come si possa promuovere una persona per rimuovere il problema di cui si occupa. Quando ho fatto il consulente del Minitero sui problemi della dispersione mi avevano riservato una stanza  in viale Trastevere e io ci ho messo piede tre o quattro volte al sabato: la condizione che posi e che rispettai era che i consigli li avrei trovati per strada a Napoli  non in viale Trastevere.
Quando uno sciagurato provveditore decise che doveva liberasi di me mi offrì un 'feudo' periferico dove avrei potuto continuare a fare quello che lui voleva impedirmi a livello generale. Dissi no grazie e sono ritornato in classe. Due anni dopo sono stato chiamato a Chance ed ho accettato a patto che si facessero alcune cose, per esempio una sistematica 'manutenzione della risorsa umana' o, fuori della metafora meccanica, ciò che si chiama "apprendimento professionale in situazione" da parte di docenti ed educatori: esattamente ciò che voleva impedirmi quel provveditore.
Insomma una iniziativa della società civile come la nostra ( e ce ne sono tante altre) può negoziare tranquillamente anche con la politica più maneggiona a patto che sia sufficientemente sicura di sé, a patto che non scambi la causa per cui batte con un posto di potere. Il fatto è che troppe volte le iniziative della società civile dipendono mentalmente prima che finanziariamente dai poteri costituiti e hanno paura di mordere la mano che li nutre (anche se in realtà sono loro a nutrire il proprietario della mano). 

venerdì 28 agosto 2009

La fine degli Immeritevoli


A metà luglio 2009 il Direttore Regionale dell’Istruzione in Campania ci ha informalmente comunicato che per l’anno scolastico 2009/10 non ci saranno insegnanti per realizzare il progetto Chance.
Questo progetto che per 11 anni si è occupato di recuperare alla vita civile ragazzi di 14 anni altrimenti condannati all’emarginazione, già ridotto al lumicino a causa di una deliberata scelta che ha impedito di allevare una seconda generazione di docenti adatti a questo difficile compito, viene in questo modo eliminato e senza nessuna spiegazione.
Ora mi pongo delle domande a cui non ho risposta.
1) per undici anni per poter fare scuola a ragazzi che l’avevano abbandonata un paio di decine di docenti venivano ‘distaccati’ dall’insegnamento (delle proprie classi ufficiali) e poi dedicati all’insegnamento nel progetto Chance. Dietro questo paradosso linguistico c’è il fatto che i docenti di questi allievi costituivano un ‘raddoppio’ rispetto ai docenti che sulla carta erano già dedicati a quegli stessi allievi. La domanda è: perché in dieci anni non è stato corretto questo aberrante meccanismo di vero e proprio sperpero di danaro e di devastazione professionale per i docenti e le scuole coinvolte. Oh! La risposta amministrativo burocratica la conosco a memoria, vorrei una risposta che sia intellegibile ai comuni mortali che pagano le tasse con cui sono pagati i docenti.
2) Nella città di Napoli sono registrati ogni anno tra 800 e 1000 giovani che in modo conclamato abbandonano la scuola media. Ci sono molti motivi per credere che questi dati siano sottostimati, che passando alla provincia e alla regione occorra moltiplicare questo numero per 3 o quattro. Il progetto Chance si è occupato ogni annodi 45 nuovi allievi, ossia la ventesima parte del fabbisogno in città. La domanda è : perché in undici anni non si è trovato il modo di generalizzare le metodologie, e perché il comune di Napoli ha mollato anche il progetto Chance. Anche qui conosco decine di risposte di facciata: esistono altri progetti di lotta alla dispersione, esistono i PON, i POR e quant’altro. La sottodomanda è: quanti di questi progetti si occupano di ragazzi che hanno realmente abbandonato la scuola; per quante ore all’anno lo fanno? Noi abbiamo tenuto una media di 32-36 ore settimanali, cioè una scuola a tempo pieno e attività educative territoriali. Si possono ottenere gli stessi risultati con 20, 70 oppure 200 ore annue?
3) Noi continuiamo ad incontrare ragazzi che hanno ripetuto, due, tre volte anche quattro volte la stessa classe, spesso la prima media. Non abbiamo dubbi sul fatto che non avessero imparato abbastanza, che non avessero frequentato abbastanza. La domanda è: quali strategie sono state attivate per fare in modo che ragazzi – privi di qualsivoglia handicap – traessero profitto dalla loro presenza scolastica? C’è qualcuno tra le numerose istanze della scuola che abbia fatto un censimento di questi casi, che abbia studiato una formula per evitare che la ‘ripetenza’ fosse una inutile e stanca ripetizione di un insuccesso annunciato?
4) Noi continuiamo ad incontrare ‘dispersi in casa’ (espressione calcata sui “separati in casa” sentita in TV, per le coppie separate ma che per qualche necessità pratica continuano ad abitare nella stessa casa). Il disperso in casa è un ragazzo che vaga quasi tutto il giorno per i corridoi della scuola creando situazioni di disagio a se stesso e agli altri.
In periferia un paio di questi dispersi per scuola sono garantiti, ma in molti casi raggiungono la decina; moltiplicato centinaia di scuole si tratta di migliaia di dispersi ‘occulti’ al pubblico ma ben presenti ai docenti e ai loro compagni. La domanda è: le autorità preposte, i pedagogisti, gli esperti sono a conoscenza del fenomeno, hanno una qualche idea su come gestire il problema?
5) La maggioranza dei circa seicento ragazzi che abbiamo incontrato in questi anni proveniva da famiglie multi-problematiche, traduzione in gergo sociologico dell’espressione popolare: un guaio se ne tira dietro cento altri. Significa che se in una famiglia povera di risorse economiche, ma soprattutto povera di risorse culturali e relazionali capita qualcosa, tutta l’organizzazione crolla. Si sfascia il focolare domestico e quelli che ne risentono di più sono i giovani in specie quelli che si trovano come gli adolescenti in una fase di transizione difficile in cui avrebbero bisogno di un forte riferimento adulto. Il nostro progetto quindi si occupava di ricreare a monte quelle condizioni che permettono l’impegno scolastico: sentire un forte appoggio degli adulti, sentire una comunità solidale intorno a te, essere rispettato, vedere considerati i tuoi disagi, trovare contenimento allo sbandamento inevitabile proprio dell’età e della situazione di emarginazione. Non si trattava quindi di un progetto di recupero scolastico, ma di un progetto di inclusione sociale o meglio di promozione umana, o meglio ancora di cittadinanza attiva dei giovani. Il verificarsi della dispersione scolastica al verificarsi di certe condizioni familiari è prevedibile, purtroppo nell’80-90% dei casi. La domanda è quali misure sono attivate per aiutare in via preventiva queste famiglie a evitare l’ulteriore guaio dello sbandamento dei giovani e se sono sufficienti quelle attività che si limitano ad un supporto scolastico più o meno forte.
6) Le nostre città grazie a troppe trascuratezze, grazie a una cultura parolaia che pretende di risolvere magicamente le differenze e i conflitti si stanno balcanizzando: una successione di ghetti l’un dentro l’altro, di culture da fortezza assediata che va persino oltre la distinzione tra assedianti ed assediati. La comunicazione tra classi sociali diverse che era una prerogativa di città un po’ caotiche come Napoli sta cedendo il passo all’ordine della segregazione; i nostri giovani hanno paura ad uscire fuori dai piccoli ghetti ricavati nei grandi ghetti periferici e se lo fanno lo fanno in modo ‘armato’. Interi strati sociali si disconoscono e si guardano con sospetto, si evitano zone e strade. La cultura democratica ufficiale non è estranea a questo movimento; cambiano le connotazioni, ma la denotazione è la stessa: stare a distanza dai disgraziati; noi non siano razzisti, siamo politicamente corretti, non stiamo a distanza da persone razzialmente designate, ma da quelli che stanno fuori della legalità, che condividono la cultura o l’organizzazione camorrista. C’è poi una cultura che è antropologicamente democratica, che è ancorata ai modi di vita e non ai modi di dichiararsi, che ostinatamente cerca il contatto e il legame tra persone socialmente e topograficamente distanti, e sono le persone che fanno questo a far vivere la città come un tessuto di legami. Per undici anni noi siamo stati alleati della parte migliore delle persone peggiori, di quel barlume umano che fa in modo che anche il peggiore dei criminali non desidera che i suoi figli abbiano la sua stessa vita violenta (naturalmente ci sono anche quelli che desiderano solo allevare degli eredi a imperi costruiti sul sangue, ma questi non vivono nei ghetti); abbiamo tenuto accesa una fiaccola di speranza per destini segnati, offerto una opportunità a chi voleva cambiare. La domanda è: ma dei figli dei criminali, dei killer, degli spacciatori, dei basisti, di coloro che vivono fuori della legge cosa ne facciamo? Chi si occupa di portare un messaggio civile, di convivenza pacifica ai soldati (a leva coatta, mercenari o volontari che siano) delle nostre periferie in guerra?
7) La scuola di un ghetto è a sua volta un ghetto che viene abbandonato da tutti coloro che ritengono di potersi tirare fuori dalla melma. Le scuole di periferia sono diventate “usa e getta”: si riempiono all’inverosimile se hanno fama di essere ‘serie e severe’, si svuotano non appena quelli che pensano di migliorarsi solo perché frequentano la “scuola bene” diventano maggioranza ed inquinano la propria stessa atmosfera: una specie di autointossicazione. Tutte le teorie pedagogiche dell’integrazione, della cultura della diversità crollano e sono impotenti di fronte ad una dinamica sociale e psicologica che è a monte della scuola: qui la diversità non c’è perché i diversi sono andati via. Restano i diversi nel senso degli emarginati e degli isolati che portano all’estremo il gioco dell’escludere. In questi anni noi non abbiamo negato il ghetto, siamo andati ad abitarlo, ci siamo mischiati agli esclusi e ai reietti e questo semplice fatto è un fatto educativo e civile che rompe la logica del ghetto. La domanda è: ma siete veramente convinti che negando il ghetto, mettendo semplicemente tutti assieme, negando le differenze si promuove l’integrazione, ossia la convivenza e l’arricchimento reciproco dei diversi?
8) Noi abbiamo sperimentato - e prima e contemporaneamente a noi lo hanno fatto nella banlieu parigina, a Medellin, a Chicago - che la parola è il rimedio al mestiere delle armi. La rabbia, il rancore, la disistima di sé, la paura degli altri, l’ostilità del mondo si vincono con la parola, mettendo le persone in grado di usare la parola ed il pensiero per elaborare la propria condizione, per migliorare se stessi. La prima competenza pratica ed operativa è il pensiero ‘astratto’ che mette in grado di pesare e valutare nella mente prima di agire. Il nostro insegnamento linguistico non è fondato sulla piacevolezza, sulla compiacenza verso culture sedicenti popolari, sulla complicità con le culture sedicenti giovanili, è fondato sulla urgenza di cambiare la propria vita.
E allo stesso modo le conoscenze scientifiche e quelle sociali sono parte di un processo di rielaborazione di sé e delle proprie esperienze, piuttosto che la trasmissione di una patrimonio estraneo a sé. Sono cose che i filosofi e i teorici hanno detto da molto tempo, noi le abbiamo sperimentate nel luogo il più distante dalla rarefazione accademica e sappiamo che funzionano. C’è qualcuno disposto a documentare e diffondere questa pratica? C’è qualcuno che dica che l’attuale ridda di innovazioni riguardanti il ‘profitto scolastico” è una follia che avrà conseguenze devastanti entro pochi anni?
9) Scuole di serie B. La nostra non è stata una scuola di serie B ma di serie Z se esistesse; tuttavia non è il campionato in cui si gioca ad essere importante, ma è importante se ci si muove in classifica, e noi siamo stati sempre in una “serie di promozione”. Una scuola di serie B perché mette insieme i disgraziati invece di mescolarli agli altri, perché li separa, perché dà grande importanza alle culture pratiche e la pratica somiglia da vicino alla scuola di avviamento ed il resto somiglia da vicino alle classi differenziali. Ma può dirsi di serie B una scuola che costa dieci volte le classi normali, che mette a disposizione degli allievi personale educativo e docente particolarmente specializzato nel leggere ed accogliere i comportamenti di giovani carichi di dolore e particolarmente capace di promuovere lo sviluppo umano di ciascuno? Tutti quelli che hanno avuto la compiacenza di guardare nel cannocchiale di Galileo hanno visto le cose che Aristotele non aveva previsto; tutti quelli che hanno avuto la compiacenza di venire a guardare senza essere scossi dai tic nervosi tipici di una superficiale cultura di sinistra hanno visto cose che i loro stereotipi non prevedevano: che si trattava di una scuola super, consigliabile per i licei prima ancora che per i ghetti urbani. La domanda è: la cultura democratica è disponibile a fare seriamente i conti con alcuni suoi stereotipi e rendersi conto che le soluzioni pragmatiche ed adattate alle condizioni locali , se curate, sono sempre efficaci e arricchenti per un sistema che non faccia della uniformità la propria bandiera.
10) La scuola che boccia boccia se stessa (Don Milani) e venti anni dopo entrando a scuola come docente ho capito che il vento era cambiato e che la scuola poteva anche promuovere per promuovere se stessa: assolversi della colpa di non promuovere abbastanza le persone che le sono affidate. E’ possibile crescere, promuovere la propria persona senza possedere gli alfabeti moderni? La risposta è no: non si cresce dentro una cultura analfabeta, non si diventa cittadini e membri di una società senza possederne gli alfabeti. Ma sotto molti altri aspetti si diventa grandi anche senza gli alfabeti: 43 nostre allieve hanno cambiato il proprio status partorendo un figlio; un numero analogo di maschi ha cambiato status compiendo qualche impresa illegale. Esistono numerosi campi in cui si può essere “grandi” senza possedere gli alfabeti; i campo criminale è uno di quelli, ma non è il solo; la società dei consumi ha moltiplicato piuttosto che ridurre questa possibilità di essere adulti in modo differenziato. Certo noi tendiamo a pensare che le persone cresciute in questo modo non siano veramente adulte, non siano veramente responsabili, non siano affidabili. E anche costoro pensano di sé queste stesse cose, per cui hanno bisogno di affiliarsi ed affidarsi, di obbedire a logiche più semplici ed elementari rispetto alla complessità degli alfabeti e delle grammatiche di oggi. Dunque il nostro problema è che da un lato dobbiamo riconoscere che esiste un processo di crescita della persona che comunque avviene, dall’altro che a questa persona sono necessari degli strumenti per vivere bene nel mondo nel quale forse precocemente o malamente si sono collocati. Noi in questi anni abbiamo fatto un gran lavoro di autovalutazione, abbiamo cercato di far vedere ai nostri ragazzi che le cose della scuola servivano oggi a loro e non domani alla società o alla produzione. Li abbiamo trattati come adulti responsabili della propria formazione e delle proprie lacune. La domanda è cosa c’entra questo con le bocciature scolastiche e con la ripetenza. Ripetere una partita sullo stesso campo, con le stesse regole, con le stesse squadre della partita persa garantisce una nuova sconfitta e poi un’altra. Cosa dovrebbero imparare i ragazzi dalla ripetenza? Non discuto della bocciatura, ma di quello che accade dopo. Ripetere è la ricetta? E sono consapevoli i grandi risparmiatori della scuola che in questo modo la popolazione scolastica si accresce di centinaia di migliaia, e difficoltà di gestione della classe aumentano?
La Costituzione dice che occorre sostenere i ‘capaci e meritevoli’; forse è il caso di aggiungere un articolo per gli ‘incapaci ed immeritevoli’?
11) Undicesima domanda (ma nel titolo lasciamo dieci perché è più di moda). Si stanno sperimentando un po’ in tutta Italia ‘progetti integrati’ che combinano ‘istruzione e formazione professionale’. Spesso più che di integrazione si tratta di giustapposizione; qualche volta insieme all’integrazione di istruzione e formazione sono presenti anche attività educative più ampie. Ci sono importanti e significative teorie che sostengono l’importanza dei saperi informali e quindi di una organizzazione dell’apprendimento che sia in grado di recepire tali saperi. Insomma un campo importante di sperimentazione in cui senza alcuna modestia siamo stati pionieri in quanto lo abbiamo fatto a partire dal 1999. Pur nelle diversità delle impostazioni e delle metodologie, da indagini piuttosto casuali, mi risulta che in ogni caso la resa è intorno al 50%: ossia per ogni cento soggetti impegnati in questi percorsi ‘alternativi’ solo 50 arrivano fino in fondo. Si tratta comunque di un ottimo risultato se si considera che la popolazione su cui si interviene è una popolazione già esclusa e già in situazione di dispersione: è come dire che si riescono a salvare il 50% di persone ammalate di una malattia un tempo inguaribile. Tuttavia noi guardiamo sempre all’altro 50%. La nostra esperienza ci dice tre cose:
a) il successo si può estendere se cresce la partecipazione attiva dei ragazzi e del territorio (più lavoro di presa di coscienza e più lavoro territoriale;
b) cresce in ragione dell’accuratezza della realizzazione (ad esempio se si evitano ritardi e discontinuità. Se i laboratori sono ben fatti, se i formatori sono appassionati del loro mestiere, se c’è un buon equilibrio tra parti operative e parti ‘teoriche’;
c) cresce quanto meno il modello organizzativo e relazionale è quello della scuola (posizione frontale del docente invece che affiancata; attività giudicante piuttosto che sostegno all’autovalutazione; frammentazione dell’orario e della progettazione didattica; scarse pratiche partecipative ed in generale considerazione dell’allievo come minore, ragazzino, inadeguato).
La domanda è: esiste una ricerca e riflessione scientifica su queste nuove pratiche? E’ possibile indicare degli standard di ‘qualità educativa’ di una organizzazione in modo che non accada – come accade – che si ripetano sempre gli stessi errori e che le sperimentazioni siano in realtà solo avventure di dilettanti allo sbaraglio?
Queste sono le domande che mi pongo nel momento in cui sta per terminare l’esperienza di Chance. Le risposte sono difficili, ma riterrei di aver speso bene 25 anni di vita ( è da quando ho messo piede in una delle scuole più disgraziate della mia città che cerco di fare qualcosa per gli ‘incapaci ed immeritevoli”) se riuscissi a fare in modo che qualcuna di queste domande fosse mantenuta aperta da qualcun altro.

Il Progetto Chance chiude?

Ripubblico qui quanto già pubblicato su Face Book  lunedì 24 agosto 2009 alle ore 1.02


Il Progetto Chance chiude dopo undici anni di attività? E’ necessario e possibile salvarlo?
Progetto Chance, anno scolastico 2008-2009: un percorso di guerra
Sintesi
Il progetto Chance ‘ mollato’ dal comune di Napoli viene rilevato dalla Regione Campania che raddoppia la posta. Nel corso dell’anno scolastico nessuna delle decisioni viene attuata, né da parte della direzione Regionale del MIUR né da parte della Regione. Il progetto va avanti per la tenacia degli storici (e stoici) docenti di Chance e per le clamorose proteste di alcuni. A fine anno stremati la maggior parte dei docenti lascia il progetto che rimane con solo 4 docenti storici e chiude per estinzione
Il Progetto Chance nell’anno scolastico 2007/2008 è stato ‘mollato’ dal Comune di Napoli che lo aveva finanziato per dieci anni sui fondi della legge 285. A detta dell’Assessore di rifondazione competente questo cambiamento avveniva per un passaggio di mano al suo collega di rifondazione assessore all’istruzione della Regione. Ma di questo passaggio, di cui si è cominciato a parlare nel dicembre 2007 non c’era traccia: nessuna corrispondenza, nessun invito ufficiale alle istituzioni che con un accordo di programma nel 1998 avevano dato vita al progetto. Insomma un tipico comportamento sciatto ed antistituzionale a cui non ho fatto l’abitudine ma che mi tocca sopportare. La ragione profonda di questo cambiamento è l’esaurimento della legge 285 che era specifica per i giovani e ‘non ho i soldi per mandare gli anziani in vacanza’ (detta fuori dai denti dall’assessore). Sta di fatto che il 4 luglio del 2008 noi abbiamo consegnato gli attestati di licenza ai nostri allievi in una tenda allestita nella piazza centrale di Napoli, Piazza Dante, dicendo che quello era anche l’ultimo atto del progetto che era privo del suo finanziamento. Mentre siamo ancora in Piazza, l’assessore Regionale e cui non manca il senso dello spettacolo, telefona per dire che lui sosterrà per intero il progetto e anzi vuole rilanciarlo. Così vado avanti fino al 10 agosto in un estenuante ridda di proposte, attese, schemi di bilancio etc… che si conclude in un nulla di fatto ed attesa al dopo ferie di ferragosto.
Il 28 agosto del 2008 conferenza stampa di Bassolino, assessori regionali e comunali dove si annuncia un grande piano di intervento edilizio per la scuola ed un grande piano di rilancio della lotta alla dispersione scolastica attraverso un raddoppio del progetto Chance. A questo incontro è invitato anche Cesare Moreno. Parlo in terza persona perché questo Cesare Moreno invitato è uno strano personaggio: non ha né ruolo, né titolo, è lui, sanno tutti chi è e nel corso della conferenza stampa diventa semplicemente ‘Cesare’. A me ricorda la scritta di un parrucchiere ”da Cesare” e in effetti mi sento molto ‘il ragazzo del barbiere’ espressione che in napoletano significa l’ultima ruota del carro a cui tutti possono rivolgersi dandogli ordini.
All’uscita della conferenza, mi rivolgo al Direttore Generale del MIUR in Campania dicendogli: be’ pare che ci siamo, possiamo metterci al lavoro, e qui primo gelo: per me sono tutte chiacchiere, il progetto parte quando vedo i soldi.
E così è andata. Quando sentii questa frase mi indignai, ma devo riconoscere a posteriori che era fondata e tuttavia sono ancora più indignato, perché mi sarei aspettato un pressing del mio ‘capo’ per dare attuazione a quanto solennemente annunciato, invece niente di tutto questo. Di tutti gli incontri fatti non c’è uno straccio di protocollo e neppure di verbale: le due massime istituzioni regionali si intendono a volo, e poi ciascuna lavora per sé.
A settembre per l’undicesimo anno parte il solito sconquasso delle nomine dei docenti: non arrivano mai, e se tutto va bene arrivano a novembre. Nel frattempo i docenti tornano in scuole dove non opereranno, a programmare attività che non svolgeranno, a conoscere allievi con cui non lavoreranno. Io come ormai da tre anni mi metto in aspettativa non remunerata per evitare questo scempio e per presidiare minimamente il progetto.
E cominciano le nostre solite pressioni anche via stampa per avere le nomine: a questo punto il direttore generale ci dice che lui senza i soldi della Regione le nomine non può farle, ma proprio per farci un favore le fa a patto che ciascuno di noi individualmente sottoscriva una dichiarazione in cui si renda disponibile a lavorare nel progetto anche senza risorse economiche. Si tratta di una chiara provocazione e di una richiesta che è l’antitesi di un comportamento istituzionale, tuttavia io sono tra quelli che dicono: i bluff bisogna andare a vederli. Così sottoscriviamo la dichiarazione cercando almeno di salvaguardare il carattere collettivo dell’impegno facendo un verbale del collegio dei docenti che viene poi trasmesso dal nostro preside. Ci fa le nomine, ma nel frattempo passa un alto mese: le nomine sono pronte, bisogna solo scriverle, stanno sul tavolo manca solo la firma: di giorno in giorno una estenuante raccolta di indizi finché trascorre un intero mese. Siamo al 20 ottobre, e non è finita: i docenti sono 13, per realizzare il progetto ne servono 27. Gli altri 14, come ormai da tre anni saranno supplenti temporanei, e arrivano ancora un mese dopo, anzi stavolta arrivano due mesi dopo e non sono 14, ma 11: il direttore si è fatto uno sconto di tre docenti e nel frattempo le classi in cui siamo impegnati sono passate ‘naturalmente ( ossia per la naturale progressione degli allievi) da sei a nove. Spiegazioni, comunicazioni, motivazioni: zero e guai a chiederle; delitto di lesa maestà.
Nel frattempo da parte della regione tutto tace: non una comunicazione, non una richiesta, non un atto e impossibilità ad avere un appuntamento con i funzionari preposti. Nuovo show giornalistico e si fanno vivi: non avete presentato il progetto, ecco la spiegazione. Un mese e mezzo di lavoro estivo, incontri, scritture, ansie, attese, buttato via con cinque parole: questa è la differenza tra chi ha il potere e chi non ce l’ha. Poiché è stata la Regione a voler assumere questo progetto, logica vorrebbe che fossero stati gli Uffici Regionali a sollecitare i responsabili qualora fossero stati realmente inadempienti. Ma Parigi val bene una messa, ingoiamo anche questa: attraverso i giornali – il mezzo più diretto e veloce per comunicare con i miei referenti – dichiaro: pare che ci sia stato un errore, tra quello di un semplice maestro elementare e quello di un grande apparato come quello regionale, molto meglio che sia stato il primo a sbagliare perché può subito riparare. A chi voleva capire era chiaro che questa ammissione di colpa era meramente diplomatica, ma per questo ci vogliono menti troppo sottili.
Dunque andiamo avanti e nel frattempo del famoso raddoppio in tre comuni della provincia si sa poco o niente. Visto che mi ero impegnato a coordinare il progetto in provincia mi attivo, faccio una serie di cose e semplicemente – via telefono – chiedo autorizzazione a proseguire.
Arriviamo quindi a gennaio senza aver cominciato nessuna attività se non quelle preparatorie: i ranghi docenti non sono completi, l’organizzazione iniziale richiede sempre almeno un mese.
Decidiamo di cominciare le attività il 12 gennaio e per quella data ci serve l’assicurazione per i ragazzi. Si tratta di una spesa di qualche centinaio di euro, ma il nostro preside ci comunica –e ha fatto molto bene a farlo - che l’assicurazione non può esserci in assenza di una atto formale della Regione: a quella data non esisteva nessun atto ufficiale in cui la Scuola IPIA Ponticelli fosse stata incaricata di realizzare il progetto.
Spostiamo tutto di una settimana sperando che nell’attesa riusciamo ad avere questo atto: come al solito non riusciamo a comunicare con i responsabili. A questo punto (18 gennaio) mi incateno sotto gli uffici della Regione. Come ho spiegato a suo tempo era indispensabile dare un segnale a tutti i colleghi ormai stanchi e sfiduciati per le inadempienze e le angherie subite, nonché ai ragazzi e alle famiglie che si erano fidati di noi e a cui non potevano comunicare un rimando dietro l’altro. Dopo quattro ore sotto la pioggia vengo ricevuto e mi viene detto candidamente: bastava chiedere. Ricevute rassicurazioni, ma soprattutto rassicurato dal fatto che ormai la vicenda è pubblica, il preside consente l’inizio delle attività pur in assenza di un atto ufficiale che però viene dato come imminente.
Passano le settimane e dell’atto non si vede traccia. Il 16 febbraio sono nella trasmissione di Alda D’Eusanio, a cui partecipo volentieri perché è certamente un luogo – irrituale, ma cosa non lo è in questo progetto - per rilanciare la partita. Lì il mio assessore invitato – a mia insaputa per farmi una sorpresa – tira fuori dalla tasca un foglietto con il decreto dirigenziale N°34 che finalmente da il via ufficiale al progetto. La data è il 16 febbraio, ossia confezionato per l’occasione quella mattina stessa.
Ora sì che possiamo cominciare abbiamo il decreto, possiamo cominciare i laboratori, ingaggiare gli esperti, insomma fare tutte quelle cose che rendono Chance diverso dalla scuola ordinaria. Sembra facile! Manca l’atto di concessione, il contratto vero e proprio tra Regione e IPIA Ponticeli. Nel frattempo il comune di Napoli ci ha scippato 400.000 euro, ossia 400.000 euro anticipati da IPIA Ponticelli e che dovevano rientrare a gennaio, sono spostati di 12 mesi perché – ma chi ci crede – il funzionario preposto ha dimenticato di faxare la richiesta a Roma.
Quindi non c’è l’atto e manca la disponibilità di cassa.
Passa un altro mese tra tentativi vari di avere l’atto. Il giorno 9 marzo il preside presume di poter avere l’atto. Conoscendo i miei polli ho organizzato insieme agli educatori un sit-in di ringraziamento con uno striscione: noi ci siamo. I funzionari della Regione non hanno apprezzato questa manifestazione di giubilo preventivo e così ci hanno chiamato nelle loro stanze ad aspettare l’atto. Ci sono volute quattro ore di attesa: l’atto che il preside avrebbe dovuto solo firmare tant’è che aveva lasciato il suo accompagnatore con il motore in moto, in realtà non c’era ed è stato confezionato al momento per non deludere le attese del comitato di festeggiamento.
Dunque finalmente è tutto a posto, ma i soldi veri arrivano ad aprile. Nel frattempo finalmente si possono fare i contratti, che si aprono tra l’altro con questa intestazione:
VISTA la DGR (Delibera della Giunta Regionale) n.° 1366 del 28/08/2008; VISTA la nota n.760/2009 dell’USR per la Campania;
VISTO il Decreto Dirigenziale della Giunta Regionale della Campania n° 34 del 16/02/2009
VISTO l’Atto di Concessione del settore Istruzione della Giunta Regionale della Campania prot.n.2009.0202415 del 09.03.2009.
Per farsi un’idea di cosa significa: tra esperti, educatori, fornitori vari etc. abbiamo da fare 150 contratti riguardanti sei diverse località. Ora che c’è l’atto possiamo muoverci, ma per ogni cosa bisogna fare una gara, un bando pubblico. C’è la contabilità europea e giustamente bisogna fare le cose per bene: qualche giorno per preparare l’avviso, dieci giorni la scadenza d’urgenza un’altra settimana per esaminare i curricoli, fare colloqui etc. Passa un altro mese.
Tra i tanti contratti c’è quello con l’equipe psicologica. Il nuovo assetto del progetto non consente un ‘appalto’ globale e questa è una difficoltà oltre che pratica psicologica; inoltre l’estensione del progetto, la sua realizzazione in condizioni diverse da quelle abituali richiede di introdurre cambiamenti e modifiche a tutta la struttura. Discutiamo a lungo queste cose con i responsabili dell’equipe che ci segue da dieci anni, ma alla fine, a negoziato praticamente concluso, avviene una rottura. Di conseguenza siamo senza l’equipe psicologica che per dieci anni ha accompagnato il progetto mentre siamo letteralmente bombardati da messaggi espliciti ed impliciti che preconizzano un disastro se non riprendiamo a bordo l’equipe psicologica di sempre. Noi abbiamo imparato molto da questa equipe, soprattutto ad aver fiducia in un metodo ed una organizzazione del lavoro rigorosa; quindi avevamo la determinazione per credere di riuscire ad organizzare il lavoro in modo efficace anche con una equipe diversa a patto di individuare le giuste professionalità e rispettare il rigore metodologico dell’impianto. Così abbiamo fatto, ma è stata un’altra grande fatica.
Le nuove scuole in cui si realizza il progetto
Sintesi
Un emergenza che aiuta a capire la validità di un metodo; l’importanza del gruppo e delle motivazioni per migliorare gli apprendimenti dei giovani
La cosa più interessante sta accadendo in provincia. Qui visti i ritardi e la situazione nuova posso sperimentare un innesto del progetto dentro la scuola ordinaria. Faccio tutti i passaggi nei collegi dei docenti e con qualche sforzo passa l’idea che il progetto debba avere un ruolo sistemico e non quello di una soluzione ad hoc per liberarsi di ragazzi impossibili. Quindi gli allievi sono scelti con la partecipazione dei docenti di classe ed in qualche modo sono i docenti della scuola a dirigere il progetto ed anche ad ‘apprendere’ nuove metodologie attraverso il progetto. C’è il piccolo particolare che né i lavori edilizi indispensabili a gestire la logistica del progetto, né i 12 docenti che dovevano essere forniti dalla Direzione Regionale e pagati dalla Regione arrivano. D’accordo con i docenti e i dirigenti delle scuole andiamo avanti lo stesso ricorrendo agli esperti (di fatto insegnanti talora della scuola stessa, ma ingaggiati con un contratto di collaborazione), poi ci sono gli educatori, le coordinatrici pedagogiche.
In tutte le tre scuole i ragazzi reclutati sono: alcuni che erano fuori del tutto, alcuni che frequentavano un giorno su tre, altri che erano’condannati’ vuoi per le malefatte, vuoi per il rendimento scolastico nullo, vuoi perché passavano, talora da anni, le giornate nei corridoi.
Siamo in pratica a fine aprile, quando per gli altri comincia la smobilitazione. I nostri ragazzi lavorano mattina e pomeriggio, si organizzano per fare scuola anche durante le elezioni, e restano a scuola fino all’ultimo giorno prima dell’esame. D’accordo con i docenti delle scuole stabiliamo che nei fatti non è possibile alcun recupero di lacune rispetto al programma, ma solo il recupero e l’organizzazione di conoscenze ed esperienze già realizzate. In pratica la situazione di emergenza ci aiuta a lavorare sul metodo piuttosto che sui contenuti sorretti da tutta la nostra esperienza pratica e dai convincimenti teorici che ci dicono quanto sia utile la valorizzazione dei saperi informali e non formali. Ci aiuta anche il fatto di corresponsabilizzare i ragazzi e di creare subito un clima comunitario: i ragazzi si legano a noi e tra di loro e avvengono veri e propri miracoli di rimotivazione e di impegno. Molto meno sul piano di nuove acquisizioni scolastiche e sul piano dei comportamenti aggressivi ed irresponsabili. Si aggiunge a questo che i ragazzi devono fare gli esami con gli stessi professori che in qualche modo li avevano condannati e soprattutto che devono farli in ordine sparso dopo aver sperimentato invece quanto l’esistenza di un gruppo di compagni sodali aiuti ad apprendere. Si svolgono gli esami che sono in generale un vero successo: la maggioranza dei ragazzi la coglie come occasione di rivalsa positiva, dimostrazione ai loro vecchi docenti che erano migliori di quanto si credeva. Molti docenti accolgono questi exploit con soddisfazione, altri con freddezza qualcuno dichiara esplicitamente gelosia ed invidia. Naturalmente ci sono dei nei: alcuni ragazzi sono stati promossi solo perché noi del progetto abbiamo garantito che avremmo continuato a seguirli e a fare un lavoro di recupero, ed è sembrato ai docenti di classe che dovesse prevalere il criterio della continuità in un gruppo di lavoro, piuttosto che una ‘ripetenza’ certamente improduttiva. In altri casi i ragazzi sono stati bocciati forse anche perché indirettamente si voleva bocciare il progetto, ma anche questi casi sono stati molto interessanti: tutti, i bocciati compresi, sono restati a fare le attività che tradizionalmente svolgiamo fino a luglio, laboratori, visite guidate e alla fine il ‘campo scuola’ che si è svolto il 23 luglio. Ma soprattutto in molti casi le famiglie hanno testimoniato di una rinnovata voglia di venire a scuola anche nel caso dei ragazzi bocciati.
Io credo che qui abbiamo la migliore dimostrazione di validità di un metodo che accoglie la persona in modo integrale e che la considera eccellente e la rispetta: questo consente anche di tollerare sconfitte e persino le ingiustizie. Da un punto di vista di crescita personale infatti occorre che sappiamo reagire in modo pensato sia alle sconfitte sia alle ingiustizie piuttosto che agire reazioni rabbiose ed improduttive.
Alla fine del nostro anno scolastico siamo riusciti anche a fare la nostra formazione. Normalmente facciamo almeno 5 seminari all’anno, ma quest’anno tra ritardi e pezzi mancanti ne abbiamo fatto solo uno il 7, 8, e 9 luglio. Anche questo, per quanto stanchi e provati da troppe avversità (una coordinatrice s’è rotta una spalla ed è restata a lungo semiparalizzata, una pedagogista s’è rotto un piede con le stesse conseguenze, un’altra ha avuto consistenti problemi familiari, una docente importante si è ammalata di cancro, ed altri guai minori come lo sfratto da questa o quella sede, ritardi nei pagamenti etc…). Questo seminario ha dimostrato a noi stessi quanto vitale ancora fosse il metodo ed anche il gruppo dei professionisti che lo mettevano in pratica. Tuttavia proprio in quella sede un gruppo consistente di docenti ha comunicato che metteva fine al suo impegno nel progetto: alcuni per oggettivi motivi (passare l’ultimo anno prima della pensione n un simile marasma è chiedere troppo) altri per un logoramento accumulato lungo dieci anni.
Quando i miei colleghi hanno annunciato di voler lasciare non sapevano - e volutamente non l’ho comunicato - che nel frattempo anche il nostro direttore regionale del MIUR ci aveva mollato: niente docenti per Chance nel 2009/10, se alla Regione piace tanto il progetto provveda lei.
E qui si è aperto un nuovo capitolo tuttora in corso.
Un altro rilancio per il progetto Chance
Sintesi
Il progetto Chance mollato dal MIUR che lo comunica a metà luglio; la Regione Campania vuole rilevare il progetto e rilanciare ancora; se il modo è quello dell’anno precedente c’è da disperarsi.
 
Vi trascrivo la lettera che ho inviato il 14 agosto ai miei colleghi.
cari colleghi,
vi ho da poco inviato i file che ho spedito alla Regione nel tentativo di dare concretezza a discorsi che sono ancora fumosi.
La proposta della Regione, da me modificata per renderla minimamente plausibile, sarebbe la seguente:
1. I dieci docenti Chance diventano un gruppo di lavoro per il sostegno alle metodologie dei docenti impiegati nelle classi. Questi docenti agirebbero come 'formatori sul campo' sotto 'egida della Scuola Nazionale di orientamento
2. I finanziamenti andrebbero solo alle scuole medie che realizzano le classi di recupero che potrebbero essere 10
3. Nei due anni successivi i ragazzi vanno nei PAS(Percorsi Alternativi Sperimentali, versione campana dell’obbligo formativo) attivati da una rete di scuole che accetta le azioni di accompagnamento previste dal progetto Chance
4. Tutte le azioni di accompagnamento sono realizzate direttamente da ARLAS (agenzia regionale per il lavoro e la scuola) tramite un progetto speciale
5. I docenti delle classi di recupero (due orari cattedra per classe) sono finanziati dalla Regione
Ho fatto dei conti che potete leggere negli allegati ed ho visto che la spesa potrebbe rientrare nelle disponibilità della regione. A me questo impianto convince abbastanza. Però ci sono punti critici da affrontare:
Primo fra tutti: non ci credo. L'anno scorso non una delle cose dette solennemente il 28 agosto e ribadite in documenti ufficiali è stata realizzata e a tutt'oggi non si sa neppure chi ringraziare.
Che fine fanno alcune pratiche essenziali di Chance: ad esempio le attività psicologiche
Quali garanzie abbiamo che le azioni di accompagnamento ( tutoring soprattutto) siano realizzate secondo gli standard che noi abbiamo cercato di garantire
Dubito molto che tra Regione e Scuole sappiano cosa significa integrazione. Per loro è una sommatoria di cose :istruzione, formazione, stage, e, se noi insistiamo, educazione. L'integrazione invece è una idea unitaria di progetto educativo che si articola in attività diverse di istruzione, formazione, cura, educazione.... e sappiamo che una buona parte del nostro lavoro frontale e di seconda linea è dedicato a costruire ogni minuto questa unità intorno alla persona del ragazzo che cresce. Per cui se o si fa una progettazione specifica per i PAS ( come quella da me esemplificata) o, come sappiamo, i PAS non vanno bene nè per i nostri allievi nè per tanti altri che non vedono nei PAS una struttura molto diversa da quella scolastica.
Quali sono gli organi di gestione del progetto e quali poteri hanno
Quale posto intendono assegnare a chi scrive. Io credo che loro pensino a me come 'formatore'. Per me non se ne parla neppure. Sappiamo tutti che il progetto va curato in ogni dettaglio, e di certo non sono io quello che potrebbe diffondere una metodologia mentre il progetto va a rotoli.
Conclusione
Per me già questi appunti disordinati sono costati una fatica enorme, soprattutto perché sento una sfiducia crescente, perché sento la solitudine di decisioni che per quanti sforzi facciamo possono ricadere solo su chi il progetto lo conosce in ogni suo meandro e quello purtroppo sono io.
Inoltre per me la riunione del 6 agosto è stata devastante: ho chiesto ragione della mancata assegnazione dei 12 docenti, dell'assenza dei lavori edilizi, del ritardo nella nomina del gruppo di pilotaggio (16 luglio a seguito di mie rimostranze) e per tutta risposta questi signori hanno contrattaccato dicendo che la realizzazione tardiva del progetto in provincia aveva leso la credibilità della Regione. Non passa notte che non rivivo questa scena. L'anno scorso ho letteralmente rischiato la vita battendo in moto la provincia, stanco, con sonno arretrato e con la mente occupata da cento pensieri. Ogni chilometro fatto pensavo: me la sono cavata e pensavo che prima o poi sarei restato sull'asfalto. Certo lo stress, ma anche il fatto reale che a guidare in quelle condizioni è come una roulette russa. E se andavo in macchina era peggio perché il colpo di sonno era garantito. Ho fatto questo per onorare la mia parola, per l'impegno morale che avevo verso tutti quelli a cui avevo chiesto di lavorare senza altra garanzia che la mia persona. Sapevo che questo sarebbe accaduto e quindi a inizio anno ero seriamente intenzionato a lasciare. Ora non c'è nessun segnale che tutto questo cambi,
Ssaluti
cesare
A che punto siamo e che cosa si può fare.
Mia nonna, quei pochi soldi di pensione diceva che voleva conservarli per avere un funerale di prima classe a otto cavalli. Poi verso i 97 anni, o la demenza o la saggezza le fecero dire che del funerale non le interessava. Invece io pur non avendo messo niente da parte vorrei per questo lavoro almeno un funerale di prima classe, un congedo come si deve, ma penso che anche questo sia difficile. Forse qualche amico potrebbe aiutarmi in questo visto che si tratta di un lavoro in cui il tempo e l’affetto sono ingredienti importanti e soprattutto dipendono solo da noi e non da qualche autorità.
Detto questo provo ancora una volta a dire cosa si potrebbe fare e perché è altamente improbabile che lo si faccia:
a) Qualcuno dovrebbe riconoscere il valore scientifico e metodologico del progetto
b) Qualcun altro dovrebbe avere una politica verso i giovani; se c’è una politica al suo interno una attività come questa potrebbe avere un senso
c) Ci vorrebbe un gruppo di lavoro forte a dirigere il progetto
Perché queste condizioni non possono realizzarsi:
Tre buoni motivi per chiudere il Progetto Chance
1 - Il progetto Chance è “fuori linea”
In undici anni di vita la cultura di questo paese non ha riconosciuto la nostra attività se non come oggetto folcrorico, relegato tra le peculiarità napoletane, e tra le fisse di qualche persona. La cultura di sinistra, soprattutto nella sua versione scolastica e pedagogica, l’ha sempre sentito come un oggetto estraneo, come un cedimento alle soluzioni ad hoc, come una violazione dello statuto di uniformità a cui troppi sono attaccati (ma soprattutto la sinistra il cui statalismo viene prima dello stato in quanto proviene da un bisogno irrazionale di tenere tutto sotto controllo). I discorsi che sento dai "politicamente corretti" cominciano sempre con: c’è il rischio che-….. ed il nostro progetto è esposto a cento rischi: di ghetto, di localismo, di scuola di serie b, di scuola che non istruisce abbastanza, di scuola in qualche modo addirittura "privata". Ma soprattutto questa scuola aggira le regole non dette a cui si inchina la cultura di sinistra come e più di quella di destra: non rispetta la gerarchia, non considera i docenti come meri lavoratori; pretende di valorizzare le capacità personali dei docenti, non ha una RSU, non partecipa a quei negoziati sindacali che somigliano più al mercato delle vacche che a una seria funzione di mediazione, non ripetono abbastanza gli slogan semplificativi cari alla sinistra che non vuole pensare. Questi docenti pretendono di sviluppare una “comunicazione orizzontale” quando tutti amano innanzi tutto la gerarchia: tra centralismo democratico, centralismo statalista, centralismo burocratico, centralismo da monopolio c’è sta sempre un’alleanza neppure tanto segreta. Troppi sono sospettosi: fate pure, giacché ci credete e finché non c’è altra soluzione. Ma le vere ricerche, le vere sperimentazioni si fanno altrove.
Il periodo peggiore per me è stato proprio quello che poteva essere il migliore, quando Berlinguer predicava che la scuola di tutti è tale solo se è la scuola di ciascuno, quello in cui per la prima volta si parlava di formazione professionale in termini da farne una scuola di serie A e soprattutto di inserire in ogni percorso formativo una componente di conoscenze situate o competenze. Proprio in questo periodo in nome della grande trasformazione in atto - in realtà boicottata o non valorizzata dai vetero comunisti (sedicenti tali, ma in realtà una sorta di gentiliani o crociani di sinistra) che specie tra i docenti sono una specie inestinguibile - gli interventi per il recupero della dispersione sono stati visti come fumo negli occhi e smantellati uno per uno. E questo è il primo punto: esistono degli intellettuali, dei pedagogisti, dei ricercatori disponibili a studiare un minimo le pratiche e la teoria di questo progetto e dire se si tratta di un esperimento significativo o solo l’opera meritoria di qualche insegnante bislacco. Dire se esso sia ammissibile tra le metodologie interessanti per la scuola ordinaria per le situazioni difficili che esistono e sempre esisteranno?
Io credo che questo sia molto difficile perché implica una revisione di punti nodali riguardanti l’idea di democrazia, i modi della partecipazione, il ruolo del conflitto, i modi della mediazione culturale e politica. Ci sono persone che potrebbero mobilitarsi in questo senso, che sono vicine ai modi di pensare ed agire che noi abbiamo messo in pratica, ma ci sono anche le prudenze, qualche invidia, qualche gelosia, qualche esigenza accademica che frenano. Vediamo.
2 - Il Progetto Chance è fuori dalle Politiche per i giovani che infatti non esistono
Un progetto di recupero umano, sociale e scolastico di giovani sbandati ed emarginati dovrebbe essere parte di una politica verso i giovani, parte di una idea della convivenza nelle nostre città, parte di un movimento per riconsiderare in modo profondo gli stili di vita che stiamo diffondendo e proponendo ai giovani. Quando abbiamo cominciato esisteva una legge per ‘i diritti e le opportunità dei giovani’ e questo oltre a fornirci i finanziamenti ci forniva un brodo di coltura, un contesto in cui la nostra azione aveva un senso. Esisteva anche un inizio, subito abortito, di una diversa organizzazione della scuola in cui i diritti non fossero oggetto di studio e di interrogazioni ma diritti agiti, (lo statuto degli studenti e delle studentesse), in cui il contratto educativo fosse vero e non solo un bellettamento del regolamento di istituto. Nella scuola forse stavamo passando dalla monarchia assoluta alla monarchia costituzionale, ma anche questo è finito subito e non per l’ondata di destra. Anzi io penso che gran parte dell’ondata di destra deriva dal modo in cui – nei decenni precedenti - la sinistra si è occupata male dei bambini e dei giovani e deriva da una scuola che prepara i giovani più a farsi sudditi che non cittadini sovrani. Dunque senza avere una politica verso i giovani, senza avere una idea di scuola sensata e appropriata ai tempi non vedo come i politici possano fare scelte sensate nei confronti di un progetto come il nostro. A Napoli nelle istituzioni si alimentano i fuochi degli ultimi banchetti, come a Pompei prima della devastante eruzione. I giapponesi si erano comprati per una sterlina il glorioso marchio Rover ed i suoi debiti. Anche noi siamo in fase di svendita a prezzi di fallimento e qualcuno pensa di poter fare un buon affare con questo marchio, ma niente di più: la fine viene semplicemente rimandata di un paio di anni, e dietro quel marchio ci sarà tutt’altra tecnologia. Forse migliore, ma non lo sappiamo.
3 - Il progetto chance non ha sponsor, né un vero gruppo dirigente
Per questa attività ci vuole un vero gruppo dirigente, fatto di persone che vogliono compiere un’impresa e non semplicemente amministrare qualcosa di esistente, che vogliono sperimentare, che vogliono sfidare le difficoltà, che sappiano progettare il futuro, che sappiano interloquire con i diversi poteri. In questi anni per prima cosa non c’è stato un gruppo dirigente riconosciuto come tale: io, Marco Rossi Doria ed altri colleghi che abbiamo coordinato e diretto il progetto, che abbiamo interloquito con ministri, Presidenti della repubblica, giornali, televisioni, scienziati dell’educazione, siamo stati degli abusivi, sottratti al nostro dovere di stare in classe con gli allievi per occuparci delle mille cose che richiede una impresa complessa senza nessuna autorizzazione e nessun riconoscimento, se non quello che ci derivava dai nostri stessi colleghi. Questo ha avuto conseguenze devastanti innanzi tutto sulla voglia di eventuali altri di partecipare a una attività del genere, senza orario e senza limiti, senza riconoscimenti e con il rischio di essere anche indicati come abusivi in qualsiasi circostanza; quindi niente ricambio, nessuna possibilità di costruire una ‘scuola’; ma ha avuto conseguenti logoranti anche sulle persone. Marco Rossi Doria certamente aveva voglia di lanciare una sfida politica quando si è presentato come candidato sindaco, ma voleva anche lasciare un progetto che sotto tutti gli aspetti era in un vicolo cieco.
Con la fuoriuscita di Marco Rossi Doria abbiamo perso un pezzo importante che consentiva al gruppo di tenere contemporaneamente il fronte interno delle difficoltà e della continua manutenzione del progetto ed il fronte esterno ed istituzionale necessario a reggere l’impalcatura generale del progetto. Di fronte alle crescenti difficoltà createci dai decisori (i ritardi nell’inizio, il fatto di dover operare con personale che stava con noi non più di quattro cinque mesi) siamo stati del tutto assorbiti nelle faccende interne fino trascurare il decisivo fronte esterno. Avevo fatto un ultimo tentativo quest’anno per creare una sorta di comitato di consulenza con personalità scientifiche e culturali del territorio ma è miseramente fallito di fronte alle logiche più forti degli apparentamenti accademici e politici. Quindi anche su questo fronte dubito molto che ci sia qualcuno disposto a raccogliere la bandiera strappata caduta sul terreno.
Non un appello ma tre appelli
Dunque qualcosa da fare ci sarebbe, effettivamente questo non è un appello ma un triplo appello:
a) cercasi pensatore, filosofo, scrittore, poeta, pedagogista, psicologo - se sono un gruppo non ci dispiace - disposto a ‘ispezionare’ il progetto e dire se vale la pena investirci
b) cercasi politico – o più di uno - che in modo non partigiano sia disposto a sostenere una politica di promozione della cittadinanza giovanile ad ogni livello e soprattutto nei processi di istruzione e formazione e sia disposto a spendersi con interrogazioni, investigazioni e quant’altro per sostenere un progetto di punta su questo terreno.
c) cercasi uno o più project manager disponibili ad impegnarsi a tutto campo in un’impresa bella ma rischiosa, entusiasmante ma faticosa. (possibilmente più vicino ai quarant’anni – ma per me anche 30 o 25 vanno bene – che non ai sessanta)
Se c’è qualcuno disposto a lanciare questo triplice appello penso che le cose potrebbero andar bene perché male che vada mi sarei assicurato quel funerale con otto cavalli che è stato il sogno di mia nonna finché demenza non la colse.

Chi sono i maestri di strada

Maestro di strada è un nome forse coniato a New York, forse in Israele, noi maestri di Napoli lo abbiamo introdotto nell'uso comune per designare in modo efficace un modo di educare diverso a quello in uso nel nostro sistema scolastico ma forse più vicino ai modi originari dei maestri.
Maestro di strada 
significa mettersi sulla strada di chi vuole crescere e accompagnarlo -  essere dalla sua parte e non di fronte a lui - per mostrargli la strada muovendo i passi per primi o osservandone e guidandone i passi;
significa una disposizione del cuore che è una disposizione amorosa, ossia di cura e gratuità;
significa una disposizione della mente aperta, che cerca di mettersi dal punto di vista di chi apprende, che capisce le emozioni, le ansie, le paure di chi apprende e sa essere rassicurante;
significa una disposizione della persona forte, sufficientemente ferma da contenere le oscillazioni, le debolezze, le crisi di chi sta crescendo;
significa frequentare luoghi aperti, senza reti di protezione, senza divise che ti proteggono,  dove il sapere e la competenza si incontrano e confrontano con le necessità della vita e con la convivenza civile;
significa essere sempre esaminati e messi alla prova da una realtà che noi stessi contribuiamo a creare, quella di una persona autonoma che possiede saldamente la propria vita e la propria identità;
significa infine lavorare perché una relazione così intensa e coinvolgente come quella educativa, abbia un termine e che il suo successo si misuri soprattutto dal modo e dal tempo in cui si conclude.
Tutto questo è stato sperimentato da chi scrive, da alcune decine di insegnanti della scuola pubblica italiana, da alcune decine di educatori professionali, pedagogisti, psicologi nell'ambito di un progetto  della scuola pubblica italiana e di altre istituzioni quali il Comune di Napoli o la Regione Campania che si chiama Progetto Chance. E' stato sperimentato nelle periferie più degradate della città di Napoli,  nelle zone di guerra della criminalità  organizzata, e sappiamo che è l'unico modo per insegnare  a leggere scrivere far di conto, nel senso alto che questi termini hanno o dovrebbero avere, a giovani altrimenti condannati alla morte civile;  ed è l'unico modo per stabilire un legame con pezzi della società che altrimenti stanno percorrendo una strada che porta loro e noi verso una non-società, verso un ordine sociale basato sulla forza e l'esclusione, piuttosto che sulla convivenza e l'inclusione.
Tutto questo per troppo tempo è stata la mera testimonianza di un gruppo 'eroico', un progetto fra tanti che affollano i margini della scuola italiana; è stato sempre in bilico e dipendente da variabili 'esogene' quali gli umori e le convenienze immediate dei politici, gli umori e le convenienze dei vari gradi della burocrazia ministeriale.  Oggi per il dodicesimo anno consecutivo combattiamo una battaglia per la sopravvivenza che francamente non ci interessa molto, vorremmo invece combattere una battaglia per l'affermazione forte di una politica con i giovani che dovrebbe aiutare a migliorare la nostra società valorizzando appieno questa ricchezza piuttosto che occuparcene e male come problema. E' per questo motivo, che su sollecitazione di molti amici mi sono deciso ad aprire questo blog e spero di rendere un buon servizio alla causa che condivido con molti altri.
Sito della Associazione Maestri di Strada
Sito del Progetto Chance
Sito delle attivita' didattiche personli
La mia foto
Napoli, NA, Italy
Maestro elementare, da undici anni coordina il Progetto Chance per il recupero della dispersione scolastica; è Presidente della ONLUS Maestri di Strada ed in questa veste ha promosso e realizzato numerosi progetti educativi rivolti a giovani emarginati.