domenica 9 maggio 2010

Educare, perdonare, essere buoni

Cos’è il buonismo?

In assenza di dizionario penso che sia una degenerazione dell’essere buoni, come lo è sentimentalismo, moralismo etc..  e ancora suppongo che ‘ismo’ sia un suffisso che indica la degenerazione astratta e di maniera di cose concrete e positive come i sentimenti e la morale.
Dunque il buonismo è una bontà staccata dal suo supporto, una pelle di coniglio senza il coniglio dentro, una zuppa di fagioli senza fagioli.  Quindi siamo tutti incondizionatamente contro questo imbroglio. Mentre saremmo tanto appassionati dell’originale: l’essere buoni.
Non sono affatto convinto.
Intanto ciò che è interessante è capire l’origine dello svuotamento dei concetti nobili, come accade che un pensiero che affonda nell’essere delle persone si trasformi in una mera opinione che se ne sta appesa nel guardaroba come una pelle conciata pronta ad essere usata appena ci sia da metterla in mostra. Le spinte emotive allo svuotamento di un sentimento autentico sono essenzialmente di due tipi:
  1. Un bisogno ossessivo di stare dalla parte giusta, di fare massa con le persone che stanno nel giusto e sentirsi in questo modo protetti dal gruppo; un’idea del tipo: se sto dalla parte giusta non potranno farmi del male.  Questa spinta è tanto più forte quanto più il sentimento in questione non gode di buona stampa: ad esempio ‘essere di sani principi morali’  oppure appunto “l’essere buoni”. Cos’ facendo coloro che sono affetti da tali buoni sentimenti si separano dal contesto in cui essi hanno un senso concreto e si inseriscono in uno schieramento ideologico che li rende più indifesi di prima perché non esistono più quelle relazioni concrete  che alimentavano i buoni sentimenti.
  2. Un bisogno ossessivo di compiacersi dei propri buoni sentimenti ed insieme di rassicurare coloro che non li condividono circa le proprie buone intenzioni.  Gli ‘..ismi’ sono doppiamente collusivi: colludono con la nostra parte regressiva che sente il bisogno di essere benvoluta  e riconosciuta se no l’autostima scade, e collude con la parte regressiva di quelli che ‘non hanno buoni sentimenti’ e che sono alla ricerca di conferme circa il fatto che in fondo non sono responsabili di quel che fanno, e vanno alla ricerca di qualcuno che gli voglia bene.
In tutti e due i casi c’è uno svuotamento  del contenuto reale che è quello di una relazione umana in cui entrambi gli attori dovrebbero essere in contatto con l’essere autentico dell’altro, qui invece avviene uno scambio di immaginette, un mercato di santini: l’uno ne smercia  come taumaturgici, l’altro ne acquista con altrettanta fede nel miracolo.
Dunque basta porsi il problema di essere buoni e si diventa immediatamente buonisti, in quanto il bisogno di apparire buoni falsa la relazione. Per essere veramente buoni occorre tuffarsi in una relazione senza farsi domande e sfidarla anche con delle ‘cattiverie’: ad esempio sapere che non si può essere sempre benvoluti e che spesso le nostre ‘buone azioni’ potranno apparire ‘cattive’ all’altro socio.  Dunque non solo non bisogna essere buonisti ma neppure buoni.

Perdonare?
Alcuni giorni fa un educatore imprecisato di un luogo imprecisato è stato picchiato di santa ragione da un ragazzo di una quindicina di anni.  Pare che fosse in corso tra i due una scena abituale a metà tra lo scherzo e il serio, ad un certo punto l’educatore ha dato una spinta di troppo e il ragazzo ha reagito come una furia. L’educatore consapevole di quello che stava accadendo non ha reagito e si è limitato a ripararsi.  Poiché questo avviene nel contesto di un imprecisato progetto socio-educativo si è immediatamente messa in moto la macchina ‘educativa’:  bisogna mettere il ragazzo in condizioni di non nuocere e perciò dedicargli insegnanti ed educatori a livello individuale, e dargli un’altra occasione per correggere il suo comportamento.
Se i fatti stanno in questo modo – ed ho omesso i dati di riconoscimento proprio perché non ho alcun elemento per dire quanto questa ricostruzione si avvicini alla realtà – ma provvisoriamente  fingiamo che le cose stiano così,  siamo in pieno buonismo.
Ma soprattutto c’è una idea dell’educazione che non funziona.
Cosa significa dare una nuova occasione: c’è un cammino lineare dallo stato selvaggio a quello civile, qualcuno inciampa. Lo aiutiamo a rialzarsi e speriamo che la lezione gli sia servita.

E’ un’idea che è tanto non rispondente alla realtà quanto invece popolare tra i profani del volgo e i chierici dell’educazione.
Nell’essere umano c’è sempre e continuamente ‘bestialità’ e “civiltà”. La bestia che è in noi è pronta scatenarsi non appena se ne presentino le condizioni. Sant’Agostino - che non aveva letto Freud - fa una descrizione del suo proprio imbestialirsi allo stadio che  resta un capolavoro per intendere questa verità.  Dunque noi dobbiamo fare di tutto per non dare un’altra occasione; l’altra occasione a parità di condizione psichica scatenerà le stesse reazioni. Noi possiamo tenere sopita la bestia evitando quelle condizioni, ad esempio evitare la condizione di interazione multipla del gruppo di lavoro  in cui le tensioni si moltiplicano e si esaltano, e facciamo bene se questa è una misura  di difesa del gruppo e della nostra incolumità, ma non affronta il problema in alcun modo.  Viceversa un intervento educativo consiste nell’aiutare questo giovane a conoscere le proprie violente emozioni e aiutarlo a contenerle.  Il punto di partenza di questa operazione è che il giovane riconosca  il danno creato in questa occasione: i colpi buscati dall’educatore devono diventare la materia prima – sussidio didattico - per un processo congiunto di elaborazione della situazione.

Questo inizio non è poco. Abbiamo avuto casi di giovani che neanche di fronte al giudice del tribunale si sono resi conto del danno inferto, dell’errore commesso ed hanno continuato  ad attribuire ad altri e ad altro il proprio comportamento. Questi casi sono ormai ai confini della patologia e denunciano una grave scissione nei comportamenti che forse non può essere trattata con mezzi educativi ma con una vera e propria terapia.  Dunque il riconoscimento della propria responsabilità è il punto di partenza per l’azione educativa:  non si tratta di ricevere o chiedere delle scuse, si tratta di una presa di coscienza indispensabile per rendere possibile l’azione dell’educatore. Va da sé che l’educatore non porta rancore e che non chiede risarcimenti, ma deve chiedere con grande forza, come proprio dovere professionale, il ripristino delle condizioni di alleanza educativa.

Dunque hanno fatto benissimo il marito della maestra e la maestra dichiarare che non hanno alcun rancore, ma il perdono è un’altra cosa che non appartiene a loro. Il perdono appartiene al ragazzo protagonista e alla comunità: entrambi devono sapere se c’è un individuo incapace di controllare le proprie reazioni, ed incapace di riconoscere il danno che può infliggere.  Dal riconoscimento di ciò il ragazzo può rassicurare se stesso e gli altri che la cosa non si ripeterà per sua volontà e che questa esperienza potrebbe servirgli a elaborare meglio la rabbia. Dopo di questo tocca a coloro che fanno lavoro educativo cercare di capire cosa è accaduto e come evitare che si riproducano i fattori scatenanti (vedi il blog precedente) e come aiutare questo ragazzo ad educarsi ossia a non restare schiavo delle sue elementari pulsioni. Gli educatori non aiutano mai le persone a restare come sono, a scusare i loro comportamenti con qualsivoglia disagio sociale, familiare o psichico, gli educatori devono aiutare le persone a crescere e a migliorarsi. Quando violenza e rabbia esplodono il nostro compito non è schierarci con i buoni che perdonano o con i cattivi che condannano, ma con chi sa amare ed educare i giovani anche e soprattutto quando fanno cose sbagliate. Questo in genere si fa fuori dal clamore dei media, usando la competenza e il pensiero per sostenere chi ancora non ne ha abbastanza e finché non sia in grado di gestirsi da solo.

Che io sappia nel caso nell’educatore non è stato fatto niente di questo tipo e di conseguenza abbiamo un educatore che forse cambia mestiere, un ragazzo che sta sotto sorveglianza ma non ha intrapreso un percorso di rielaborazione; un gruppo di allievi che sente il peso per la perdita contemporanea di un compagno e di un educatore a cui erano abbastanza legati, un gruppo docente che non può non sentirsi frustrato da una situazione che conserva intatti gli elementi di debolezza che sono all’origine dell’episodio.

Dunque io spero che qualcuno voglia occuparsi di questa situazione che in ogni caso immetterà nella società un ragazzo che alcuni definirebbero ‘impunito’  che in realtà è stato lasciato solo con le sue violente pulsioni e che non è in grado di controllarle.
Alle mie colleghe del 48 °Circolo e colleghe di Maria  Marcello, che leggono il mio blog,  prego di dare i miei auguri alla collega ferita, ma anche alle altre colleghe  che immagino a pezzi per quanto accaduto. Io sono disponibile, se ritengono che posso aiutarle con le sole parole - quelle stesse che stanno in questo scritto –, a  dedicare loro il mio tempo libero dall’orario di servizio.
Agli operatori e ai responsabili della seconda situazione, se si riconoscono nel quadro descritto, se ritengono che non si tratti di un parto della fantasia,  faccio appello perché non esitino a ricorrere alla mia modesta competenza o a quella di chiunque altro sia in grado di affrontare una situazione così complessa e per molti versi pericolosa.

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Napoli, NA, Italy
Maestro elementare, da undici anni coordina il Progetto Chance per il recupero della dispersione scolastica; è Presidente della ONLUS Maestri di Strada ed in questa veste ha promosso e realizzato numerosi progetti educativi rivolti a giovani emarginati.