domenica 24 gennaio 2010

Il metodo dei maestri


Il metodo dei maestri
(Paolo Mauri - Republica del 17 gennaio 2010)… con intelligenza metteva in gioco se stesso cercando di catturare l´attenzione e la complicità dei ragazzi. Si metteva al loro livello e con loro spesso giocava. Un trenino Rivarossi poteva diventare il fulcro di un´aula: Caproni amava i trenini. Quando finivano presto il compito mandava gli alunni a comprare dei dolcetti che distribuiva come premio. Insegnare è un´arte.
…. Secondo De Benedetti non c´era affatto distanza tra il poeta e il maestro: erano tutt´uno.
Marcella Bacigalupi e Piero Fossati pubblicheranno in primavera presso Il Melangolo un libro dedicato al Caproni maestro che si intitola Feci il maestro per caso. (le seguenti citazioni sono tratte dal loro libro)
“Insomma odiavano tutti e tutto. Io allora li misi assieme e cominciai a stare e a vivere veramente con loro. È stata la più bella esperienza della mia vita d´insegnante”.
“I bambini sentirono meno il peso della loro condizione in una classe dove tutti avevano lo stesso problema.”

Non applicava ricette ma cercava la via per far crescere umanamente e intellettualmente i suoi scolari: “Devo portare i ragazzi al linguaggio, alla lingua. E tutto è lingua: la geografia, la storia, l’aritmetica, il disegno. Lingua ossia espressione” (Registro della classe IV,1968/69).

 “E’ che a furia di far parlare questi marmocchi (facendo finta di ‘non insegnare’) sono in parte riuscito a far loro coordinare le idee” (Registro della classe IV,1952/53).
“Maestro senza metodo”, confessava. … “Ero la disperazione dei Direttori Didattici”. Né poteva essere diversamente per lui che sapeva cogliere nelle parole dei suoi alunni le curiosità capaci di suscitare lezioni ‘fuori programma’.

Disposto perfino ad andare a cercare personalmente chi si sentiva a disagio nell’istituzione: “Accordatomi con il Sig. Direttore ho fato un giro nelle case dei recidivi e ora con soddisfazione posso notare che le frequenze sono tornate alla normalità” (Registro della classe IV, 1946/47).

Poesia e maestrìa


Sono stato alla commemorazione del poeta Giorgio Caproni invitato dalla maestra Pamela Di Lodovico che ha organizzato l’evento. Si è parlato di Caproni maestro elementare che oltre 60 anni fa, senza chiedere il permesso a nessuno, ha fatto quelle poche semplici cose che vanno fatte per accogliere i bambini ed insegnare e soprattutto per insegnare a quelli che per avere subito precoci colpi dalla vita “odiano tutto e tutti”. Vi riferisco quello che ho detto ed alcune cose che volevo dire ma non ho detto perché era tardi e le persone erano state fin troppo pazienti.
Innanzi tutto ringrazio la Maestra Pamela che ha voluto mettermi in presenza di un poeta, perché questa è l’occasione migliore per mettere in evidenza alcune cose che riguardano la professione del maestro in genere e quella dei ‘maestri di strada’ dei quali mi occupo da dodici anni.
E’ stato detto stasera che gli allievi di Caproni hanno avuto la fortuna di avere un poeta per maestro, ed è stato detto che Caproni è stato capace di ‘accudire’ i suoi alunni e non solo di insegnargli.
Ora vi dico che ogni maestro è un poeta e se non lo è non riesce a fare il suo lavoro. Quali  sono le componenti poetiche di questo lavoro?
La prima è che il maestro riesce a vedere l’unicità della persona in mezzo ad una classe fatta di eguali e quindi indistinti. Per far sentire ciascuno unico basta uno sguardo o un parola che restituisce al bambino la sensazione che noi siamo lì solo per lui. Il poeta riesce a vedere nelle cose comuni, nella vita che scorre eguale da millenni, qualcosa di unico ed irripetibile, e, come diceva Caproni, “lo ferma” in una poesia.
La seconda è che compito specifico di un maestro è far vedere ai bambini per la prima volta cose mai viste, e deve accostarsi a questo compito in un modo sacrale, rispettando la mente del bambino come se entrasse in un tempio, rendendosi conto che quel momento è unico ed irripetibile. E questa è un'altra capacità specifica dei poeti e degli artisti in genere, quella di farci vedere le cose, anche quelle più abituali, come se esistessero ora per la prima volta ed esistessero solo per noi.
La terza cosa è l’accudimento. Il poeta non ha la testa tra le nuvole, anzi guarda intorno a sé con uno sguardo profondo, contemplativo e vitalizzante. Vede il dolore e l’energia vitale dove altri vedono la noia o una necessità pratica, e stabilisce un contatto con la vita dell’allievo, quello che alcuni chiamano complicità, quello che noi maestri di strada chiamiamo ‘alleanza educativa’, quello che altri chiamano “dialogo di vita”. Caproni si prendeva cura dei suoi allievi, faceva cose che attengono alla ‘cura parentale’,  riuniva sotto i nomi del maestro e del poeta la capacità – che convenzionalmente definiamo femminile, ma sarebbe più giusto chiamare genitoriale – di avere cura, di compiere gesti rivolti alla persona come singolarità irripetibile. La cura non è opposta alla poesia, non rappresenta la prosaicità del quotidiano, ma è il supporto materiale di un modo poetico ed amoroso per incontrare le persone. Noi maestri di strada facciamo del lavoro di contatto, del primo incontro con i giovani, un rituale complesso che attraverso gesti, parole, domande restituisce immediatamente ai giovani il senso della propria unicità, la promessa di essere trattati dentro la nostra scuola con il rispetto che si deve alle cose sacre. Ci è stato riferito circa una contesa tra maestro e poeta e Caproni stesso si scherniva coi bambini dicendo che lui era solo un maestro. Un testimone tuttavia dice che la distinzione tra maestro e poeta secondo lui non esisteva. Ed io credo a questo testimone perché in generale un maestro dovrebbe essere, nel modo in cui l’ho descritto, anche un poeta.
La seconda cosa importante su cui voglio fermarmi è “dare la parola”. “Devo portare i ragazzi al linguaggio, alla lingua. E tutto è lingua: la geografia, la storia, l’aritmetica, il disegno. Lingua ossia espressione” (Registro della classe IV,1968/69).


Carla Melazzini, mia collega e compagna di vita, morta un mese fa, aveva fatto della parola il centro del suo lavoro e della riflessione dei maestri di strada.
Diceva: ‘Abbiamo il privilegio di partire dal grado zero della parola’ ossia di partire da una situazione in cui le emozioni, il dolore, la violenza ambientale hanno prodotto afasia, hanno ingombrato l’animo a tal punto che non c’è spazio né per la parola né per il pensiero.  Dare la parola a chi non può averla è una impresa impossibile da compiere con la sola parola (che è lo strumento generalmente usato dall’insegnante) è necessario partire dal grado zero, dal silenzio e dal fatto che i giovani adolescenti ti zittiscono in malo modo, che non ti riconoscono né autorità né autorevolezza. E la “non parola” è per noi la cura e l’arte. L’arte soprattutto nelle sue espressioni visive è per noi un strumento di accoglienza nel quotidiano, la porta attraverso cui comincia un dialogo di vita coi ragazzi, così come lo è  la cura che si manifesta attraverso occasioni conviviali, libere conversazioni, attenzione ed ascolto alle loro narrazioni. Ed è la poesia.
Ho sperimentato direttamente nelle situazioni più tragiche la capacita della poesia di dare un nome all’indicibile e di aiutarti a vivere. La mia scuola elementare si trovava al centro di un Triangolo della Morte dove in un anno i morti ammazzati si contavano a diverse decine e dove nel solo raggio di centro metri dalla scuola in un anno c‘erano sati dieci morti ammazzati.
A scuola arrivavano bambini a cui era stato ammazzato lo zio, il cugino, il vicino e che avevano l’ingiunzione di non parlare, di non riferire nulla di ciò che spesso si era verificato sotto i loro occhi. A conoscenza delle regole della violenza sapevano pure che c’erano ‘morti innocenti’ e “morti colpevoli”, ma soprattutto sentivano che non era giusto che i bambini pagassero la violenza dei grandi.  In uno di questi giorni in cui non sapevo proprio come fare ho letto la storia del conte Ugolino, direttamente i versi di Dante che mi sono apparsi straordinariamente chiari, fatti di vocaboli niente affatto arcaici. I bambini hanno seguito nel silenzio che si conviene di fronte al sacro, ed hanno capito. Non ci sono stati né commenti nè parafrasi, la sola semplice condivisione di un momento che solo un poeta può dire. Un’altra volta di fronte allo scoramento generale relativo ad un evento che non ricordo, ho letto ‘La quiete dopo la tempesta”. Questa volta ci sono stati molti commenti e particolarmente qualcuno ha osservato che ‘quel giovane  (i bambini napoletani usano “giovane” come noi usiamo signore) che aveva scritto forse aveva molto sofferto – ed io non avevo detto nulla di Leopardi ! – e chiedevano dove stava che volevano andare a trovarlo. E quando ho detto che era morto mi hanno detto: già morto?; intendevano: lui che qualche momento fa era qui con noi. La poesia, quella vera, non semplici rime, rende contemporaneo e condiviso un sentimento antico e i bambini nelle loro freschezza lo sentono e lo dicono affermando che quella persona è viva.
La capacità di portare ogni cosa verso la parola e la comunicazione è talmente potente che il preside del Liceo Herrera di Medellin ne ha fatto un metodo. Nella sua scuola c’era una scuola nella scuola la ‘escuela de los sicarios” (la scuola dei killer) che in una anno aveva fatto 16 morti tra gli allievi tra esercitazioni e uccisioni ‘motivate’. Il preside Oscar Henao si rende conto che questi ragazzi vivono una grammatica elementare fatta di “danaro/non danaro”, “vita/morte”. Non hanno altre parole. Non hanno le parole per esprimere sé ma solo quelle per ripetere le leggi elementari della violenza. E lui lavora per dar loro la parola, incarica un gruppo di docenti di non insegnare nulla, ma solo di conversare e poi insieme ai ragazzi di scrivere un libro, di dipanare il filo complesso della loro vita attraverso una narrazione condivisa. Sembra impossibile da dire ma alla fine la grammatica sconfigge le pallottole. (vedi Grammatica e Camorra)
E da tutt’altra parte, la professoressa Erin Gruwell al suo primo incarico nella Woodrow Wilson High School di Long Beach, California, usa la stessa tecnica, ed usa la parola per riportare nel consorzio civile i giovani membri delle gang che si scontrano nelle periferie della città. (storia narrata nel film Freedom Writers)
Dunque conversare e dare la parola sono il metodo e la missione di chi vuole essere maestro e sottolineo che noi abbiamo adottato il nome del maestro per docenti che si occupano di giovani adolescenti invece che quello di professore proprio perché dobbiamo ripercorrere il processo di dare la parola a chi non ce l’ha.
Infine voglio parlare delle ‘pantomime’ di Caproni.
Uno dei suoi  metodi era quello di fingersi in difficoltà e di chiamare i ragazzi ad aiutarlo, e le chiamava ‘pantomime’.
Un’esperienza che credo sia di tutti gli insegnanti è che se - per distrazione - scrivendo alla lavagna saltano una doppia o sbagliano un apostrofo, c’è una gara degli allievi a correggerli e i più attenti e scatenati sono proprio quelli che abitualmente commettono quell’errore.  La relazione con i bambini e con gli allievi è in generale asimmetrica ed insieme a un messaggio positivo - che è “puoi riferirti a me, sono abbastanza forte da sostenerti” - trasmette anche un   messaggio negativo: “tu sei piccolo e non puoi fare niente per me”.

Il primo gesto che significa il proprio amore, compiuto dal bambino piccolo, è imboccare il genitore, possibilmente con qualcosa che sia stato già ben bene passato per la bocca, manipolato, strofinato in tutte le parti del corpo: è un gesto di reciprocità, in cui il bambino dona qualcosa che gli appartiene perché lo ha usato a fondo. Sono doni difficili da accettare, ma sono quelli che stabiliscono la simmetria della relazione, restituiscono questo messaggio: anche io sono importante per te. Dunque mettersi in “condizione di bisogno” gratifica enormemente i bambini e gli allievi in generale. Nel nostro progetto noi creiamo molte occasioni in cui sono i ragazzi a prendersi cura degli adulti: organizzando – dalla cucina in poi – un incontro conviviale, facendo da stuard ed hostess in qualche convegno, facendo da guida nella esplorazione dei propri quartieri etc… e non dico nulla dell’esperienza sublime che è quella di coraggiose colleghe – ma non incoscienti, hanno le prove che possono fidarsi - che mettono la loro testa nelle mani delle candidate parrucchiere per fare da cavie!
Dunque in questo veloce confronto tra un’esperienza solitaria di sessanta anni fa e quella organizzata di oggi, tra l’insegnare ai bambini ed insegnare agli adolescenti, rilevo che c’è un metodo. Basta mettersi d’accordo sul concetto di metodo. Uso una metafora.
Se dico ‘sei fuori strada’ sto criticando qualcuno oppure gli sto dicendo che si mette in una situazione pericolosa. Se dico “sei in fuoristrada”, dico una cosa che oggi è ricca di significati: c’è un aspetto lussuoso, perché il fuoristrada è uno status symbol indispensabile, e un aspetto di ‘avventura in sicurezza’ perché ho un mezzo in grado di marciare fuori delle strade tracciate. Dunque il nostro metodo consiste nel concederci molti lussi, ad esempio di prendersi molto tempo per assaporare le cose, per esempio darci alla poesia prima che alla pratica, per esempio conversare perché attraverso la conversazione si “organizza il pensiero” e non attraverso la lettura di una regola grammaticale, per esempio girovagare per la città senza meta; e consiste nell’avere un mezzo potente ed avanzato che ci mette in grado di viaggiare fuori strada, ossia per esplorare territori non già strutturati, per trovare vie che sono uniche  irripetibili. Questo mezzo avanzato è la sistematica attività riflessiva – nelle jeep si chiama ‘differenziale autobloccante’ che impedisce alle ruote di girare a vuoto!! - che aiuta ciascun docente a ritrovare il senso della sua missione dentro una realtà che spesso è caotica, dentro un sistema di relazioni che lo sconquassa continuamente. Dunque penso che Caproni aveva un metodo potente e talmente forte da non potersi confrontare con la lingua dei pedagogisti dell’epoca se non schernendosi dietro l’etichetta del poeta. La pretesa – che nei luoghi in cui abbiamo operato per dodici anni è oggi perdente – che abbiamo noi maestri di strada è che questa riflessione forgiata nel fuoco di una pratica dolorosa possa entrare nel circolo di una più generale riflessione su come si educa e su come si fa scuola. Stasera sono qui anche per questo, e ringrazio particolarmente Pamela per avermi data questa occasione, e di averla data ai suoi allievi che per tutta la serata sono stati col capo all’indietro lanciandole occhiate cariche d’amore e di riconoscenza.
                                                                                                                                        Cesare Moreno
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Napoli, NA, Italy
Maestro elementare, da undici anni coordina il Progetto Chance per il recupero della dispersione scolastica; è Presidente della ONLUS Maestri di Strada ed in questa veste ha promosso e realizzato numerosi progetti educativi rivolti a giovani emarginati.