domenica 23 maggio 2010

Il caos, condizione sublime per la professionalità educativa

Avevo cominciato a scrivere queste righe come premessa ad una pubblicazione integrale della lettera al direttore di Maria Luisa Busi, ma ho preso troppo spazio e mi limito a mettere il link alla sua lettera.
A lei attraverso questo blog faccio sapere che immagino quanto le sia costato questa lettera e quale prezzo altissimo le toccherà ancora pagare soprattutto in confronto a tutti quei professionisti che si sentono imbarazzati da questo gesto e che necessariamente prenderanno le distanze da lei, e saranno molli rispetto alle calunnie e allo svilimento di questa  assunzione di responsabilità. Dovrà pagare un prezzo alto anche rispetto a chi vorrà trasformare questo suo gesto in un 'passaggio di campo'  e su questo ci sarà accordo da entrambe le parti perché trasformare un gesto civico in un gesto partigiano è il miglio modo, per gli uni e per gli altri,  di usarlo per la propria fazione.
Per parte mia posso dire che i 'maestri di strada' esistono ancora anche grazie a buoni servizi della RAi e di vari giornali e considero questa sua battaglia per informare sul mondo reale e sulla carta igienica nelle scuole elementari la battaglia di tutti noi.
Riproduco un brano dell'articolo "L’educatore professionale e la qualità dei servizi socioeducativi e sanitari"  di Andrea Canevaro pubblicato in Difesa Sociale N° 1 - 2001

Che cosa possiamo intendere per professionalità, in particolare degli educatori? 
Potremmo indicare alcune componenti della professionalità nel riconoscimento di uno statuto e quindi di un ruolo professionale. Il riconoscimento non ha unicamente una dimensione giuridica ma anche una dimensione sociale e culturale. Il riconoscimento deve essere dato dalle Istituzioni, da un atteggiamento che valuti ad esempio la possibilità di fare concorsi con l'indicazione del ruolo, di avere avanzamenti nella prospettiva di carriera, e di avere delle considerazioni da parte di altre professioni per lo specifico compito che ha un educatore, e non di far dipendere il compito di un educatore o di una educatrice dai voleri delle altre professioni.
Il riconoscimento è importante. Nello stesso tempo il riconoscimento è tale se vi è una competenza, e la competenza è messa in un profilo professionale.
Quindi non è solo un riconoscimento giuridico ma anche una capacità di realizzare. Un profilo professionale permette di capire come si formano quelle competenze, perché non siano legate a carismi o a tratti di personalità.
Un buon educatore, una buona educatrice, nasce da un percorso formativo, a cui danno un contributo non irrilevante gli elementi di personalità; ma il percorso formativo deve essere chiaro, individuabile, trasmissibile, e deve essere corredato da strumenti, da tecniche. Il profilo professionale è un elemento costitutivo.
Vi è poi, nella professionalità, una assunzione di responsabilità costante. Quello che può distinguere, soprattutto in certi compiti, la professionalità dal volontariato è la costanza. Senza far riferimento alle accezioni di un volontariato che si esprime per tutta la vita, il volontariato può essere, senza colpa, una fase anche breve della vita.
La professionalità è una decisione assunta e tale da esplicarsi per tutta la vita, anche in modi diversi.
C'è, nella professionalità, un dovere di far capire anche a coloro che si avvalgono della stessa professionalità, le multiformi possibilità di vivere questo lavoro. (Andrea Canevaro)

Ciò che mi colpisce di questa definizione di professionalità è che essa venga legata all'essere della persona e non confinata all'esercizio della professione, e che sia definita come assunzione di responsabilità.  
Forse, pensandoci bene, questa definizione potrebbe riguardare qualsiasi professionalità, perché ogni professione per quanto distante dal quotidiano, rimanda in ultima analisi alla tenuta delle relazioni in una società civile. e quindi ad un contenuto umano e relazionale. Ma mi voglio limitare alle professioni che più direttamente mettono in contatto un professionista con altri esseri umani con i quali egli interagisce profondamente, in queste professioni non ci si può limitare a 'eseguire gli ordini', non ci si può limitare a rispettare le regole formali, bisogna assumere una responsabilità costate ed assumerla per tutta la vita, anche in modi diversi. 
Per me significa che un costume di dialogo, di accoglienza, di empatia, di aiuto competente non può essere messo o dismesso a comando, direi addirittura che che l'assunzione costante di responsabilità avviene anche contro la nostra volontà tanto profonda diventa l'adesione a un modello di comportamento e di relazioni. Certi comportamenti 'eroici' sono obbligati: si sentiva obbligato Korczac ad accompagnare i suoi scolari al forno crematorio, si sentono obbligati certi pompieri che rischiano e danno la vita per salvare altre vite, si sentono obbligati - fuori da ogni retorica - quei militari che in battaglia o in una ritirata difendono la vita dei compagni a rischio della propria. E' un obbligo che nasce dalla  competenza che è tecnica ed umana contemporaneamente e che ci mette in grado di capire ciò che è meglio, che è vantaggioso per le nostre relazioni in quel momento. 
Chi non sa non vede, chi non vede non sente, chi non sente non opera. 
Il sapere professionale è anche frutto di addestramento, ossia di azioni ripetute e riflesse che si trasformano in schemi d'azione obbligati, quasi automatismi. 
Quando si vuole avvilire una professionalità basta molto poco: eliminare la riflessione, eliminare l'addestramento, sottoporre le persone a piccole angherie che ne compromettano la responsabilità, che le mettano in condizione di interrogarsi non su se stessi ma su cosa potrebbero volere i capi in quel momento. 
Dunque la condizione sublime per un professionista è poter esercitare la propria professione laddove non viene accettata, laddove si fa di tutto per umiliarla, laddove si fa di tutto per scompaginarla, perché è in quella condizione che il professionista può o non può assumere pienamente la propria responsabilità, capire se la sua è o no, una scelta di vita.  
Bisogna sapere come trasformare la propria professionalità in relazione a condizioni estreme e destabilizzanti. E come dice Canevaro - è una mia lettura forzata delle sue parole ma credo compatibile - a volte gli educatori devono anche educare i propri committenti con la forza di  un metodo, con la capacità di tenere legato ciò che sembra impossibile tenere assieme. 
Ci sono donne che continuano a essere umiliate dal marito, spesso picchiate e, anche se sono donne che non hanno alcuna sudditanza psicologica, restano a gestire una famiglia perché ritengono che ci sia ancora una possibilità positiva, probabilmente sbagliano, ma io capisco che è difficile capire quando arriva il momento in cui la sofferenza personale sia un prezzo inutile o addirittura dannoso da pagare. L'educatore che, come dice Canevaro, ha una pluralità di committenti, è continuamente dilaniato dal dilemma della madre vera di fronte a Salomone: entrambe dite di essere la madre di questo bambino. Ora lo squarto in due e ne do un pezzo a ciascuna. La madre vera dichiara subito di non essere tale e Salomone, nella sua saggezza, le consegna il figlio intero. 
Continuamente siamo messi nella situazione in cui la vita delle persone può essere squartata e noi ci sentiamo garanti dell'integrità anche a costo di subire una violenza.  Ma fino a che punto possiamo accettare tutto questo? 
Finché siamo soli a decidere è molto difficile, abbiamo bisogno di un gruppo di riferimento. di qualcuno che possa ragionare con noi e dal nostro punto di vista ma in maniera un po' più distaccata, da un punto di vista in grado di vedere il movimento nel suo insieme. Una comunità professionale dovrebbe servire a questo; così, se mi consentite di restare nella metafora - ma secondo me non è una metafora - della donna sottoposta a violenze fisiche,  è solo un gruppo di donne solidale che può aiutare la donna oggetto di violenza a decidere  ma anche a cambiare finché è possibile farlo. 
E' quasi un anno - più o meno dai primi giorni del luglio 2009 - che chi scrive sta cercando di capire  dove sta il limite. Ha fatto una marcia del gambero infinita fino al punto di doversi chiedere se era ancora in sé, fino al punto di rischiare la propria salute psichica e fisica.  
Ho chiesto invano un aiuto almeno a capire se stavo facendo bene o meno. 
Poi ho capito di doverne uscirne da solo, di dovermi assumere delle responsabilità educative nei confronti del contesto, ho fatto alcune mosse, tra cui quella di organizzare una riflessione da parte di persone che in vario modo hanno sostenuto con il loro incoraggiamento  il lavoro collettivo di un gruppo di professionisti, e penso che mantenere salda la possibilità di pensare sia un imperativo categorico per questa professione e sono convinto che su questa strada si troveranno delle soluzioni. 
Ma nel frattempo la realtà continua la sua trasformazione, nodi importanti vengono al pettine e chi scrive si trova ancora una volta di fronte a dilemmi potentissimi.  
E si trova a pensare che finora non è riuscito neppure a dire alla sua comunità di professionisti quali siano le condizioni in cui opera. 
Ogni volta che parla della realtà, del quotidiano vede imbarazzo, voglia di fuga: alle persone non piace ascoltare quello che accade al di la del muro, le nefandezze che si consumano tra le mura domestiche, vorremmo che queste cose non esistessero, ci rendiamo conto che il semplice ascolto ci obbliga a qualcosa  e non abbiamo nessuna voglia di farci coinvolgere in questo. 
Il racconto delle nefandezze ci sporca, ci angoscia. Un professionista si lascia sporcare perché è in grado di elaborare tutto questo; se fugge come gli altri non ho alcuna possibilità di dialogo con lui.
Lo capisco, lo capisco, 
ma non lo accetto.
E soprattutto non lo accetto dai professionisti, perché questo nostro professionismo deve sempre partire dall'assunzione del dolore altrui, la nostra distanza non è estraneità ma solo un punto di vista defilato che ci consente di inquadrare l'insieme comprendendo nello stesso quadro la sofferenza della vittima e quella del carnefice (il carnefice è sempre solo una persona che agisce la propria sofferenza infliggendola agli altri), le ragioni dell'operatore e la logica del sistema. 
Dunque vorrei che qualcuno mi rispondesse, non dandomi indicazioni, non suggerendo soluzioni pratiche, ma prendendo atto e condividendo la difficoltà di una situazione a cui forse non c'è rimedio se non quello della solidarietà. 
E vorrei che fosse chiaro a me stesso e agli altri interlocutori, quando ci incontreremo a pensare insieme, che questo pensiero ha senso e utilità se non dimentica che nasce dal dolore di una esperienza, dalla sfida della sconfitta.




sabato 15 maggio 2010

Tre cose da fare per difendere l’educazione


MELAWebTV - Canale Documentazione
Intervista in occasione della Conferenza 
"L'educazione non è finita"
Bologna, Facoltà di Scienze della Formazione
19/01/2010
  1. La prima cosa è che gli educatori credano in se stessi perché questa è l’unica cosa su cui veramente possiamo incidere.
  2. La seconda è quella di costituire un’organizzazione ultra-corporativa che li difenda. Quando dico ultra-corporativa lo dico ironicamente, perché purtroppo gli educatori sono esposti a tutti i venti e quindi un’organizzazione che ne difenda l’identità professionale forse oggi deve essere anche un po’ estremista. Poi facciamo a tempo ad aprirci. ma nel frattempo cerchiamo di essere un po’ più chiusi in noi stessi. 
  3. La terza è far rendere conto a tutti che l’educazione è una cosa troppo importante perché se ne occupino solo gli educatori. Bisognerebbe, da un lato difendere l’identità professionale, dall’altro dire forte e chiaro a tutti che l’educazione è un compito dell’umanità e non di un gruppo di specialisti. 
Noi siamo al servizio dell’umanità per fare questo e quindi dobbiamo essere specializzati.
Però sarebbe ora che di educazione se ne occupassero tutti: il Presidente del Consiglio che è un po’ maleducato, il Preside di Facoltà che magari è più educato ma non sempre se ne ricorda… Quel comandamento che diceva non dare scandalo ai bambini … bisognerebbe che ce ne ricordassimo un po’ tutti.
 Il Web e Internet. Che cosa c’entrano con l’Educazione
Possono entrarci moltissimo perché intanto servono agli educatori per tenersi in contatto tra di loro e avere degli scambi che sono veramente essenziali. E la velocità della comunicazione è fondamentale. Se ci riferiamo ai bambini e ai giovani è uno strumento che può essere altrettanto importante per avere una comunicazione più vasta ma anche più accessibile. Poi ci sono gli aspetti di fruizione passiva, ma quelli non c’entrano con lo strumento, c’entrano con il fatto che qualcuno ti ha reso passivo. Ma l’utilizzo attivo del Web anche per i giovani è uno strumento fondamentale.

domenica 9 maggio 2010

Educare, perdonare, essere buoni

Cos’è il buonismo?

In assenza di dizionario penso che sia una degenerazione dell’essere buoni, come lo è sentimentalismo, moralismo etc..  e ancora suppongo che ‘ismo’ sia un suffisso che indica la degenerazione astratta e di maniera di cose concrete e positive come i sentimenti e la morale.
Dunque il buonismo è una bontà staccata dal suo supporto, una pelle di coniglio senza il coniglio dentro, una zuppa di fagioli senza fagioli.  Quindi siamo tutti incondizionatamente contro questo imbroglio. Mentre saremmo tanto appassionati dell’originale: l’essere buoni.
Non sono affatto convinto.
Intanto ciò che è interessante è capire l’origine dello svuotamento dei concetti nobili, come accade che un pensiero che affonda nell’essere delle persone si trasformi in una mera opinione che se ne sta appesa nel guardaroba come una pelle conciata pronta ad essere usata appena ci sia da metterla in mostra. Le spinte emotive allo svuotamento di un sentimento autentico sono essenzialmente di due tipi:
  1. Un bisogno ossessivo di stare dalla parte giusta, di fare massa con le persone che stanno nel giusto e sentirsi in questo modo protetti dal gruppo; un’idea del tipo: se sto dalla parte giusta non potranno farmi del male.  Questa spinta è tanto più forte quanto più il sentimento in questione non gode di buona stampa: ad esempio ‘essere di sani principi morali’  oppure appunto “l’essere buoni”. Cos’ facendo coloro che sono affetti da tali buoni sentimenti si separano dal contesto in cui essi hanno un senso concreto e si inseriscono in uno schieramento ideologico che li rende più indifesi di prima perché non esistono più quelle relazioni concrete  che alimentavano i buoni sentimenti.
  2. Un bisogno ossessivo di compiacersi dei propri buoni sentimenti ed insieme di rassicurare coloro che non li condividono circa le proprie buone intenzioni.  Gli ‘..ismi’ sono doppiamente collusivi: colludono con la nostra parte regressiva che sente il bisogno di essere benvoluta  e riconosciuta se no l’autostima scade, e collude con la parte regressiva di quelli che ‘non hanno buoni sentimenti’ e che sono alla ricerca di conferme circa il fatto che in fondo non sono responsabili di quel che fanno, e vanno alla ricerca di qualcuno che gli voglia bene.
In tutti e due i casi c’è uno svuotamento  del contenuto reale che è quello di una relazione umana in cui entrambi gli attori dovrebbero essere in contatto con l’essere autentico dell’altro, qui invece avviene uno scambio di immaginette, un mercato di santini: l’uno ne smercia  come taumaturgici, l’altro ne acquista con altrettanta fede nel miracolo.
Dunque basta porsi il problema di essere buoni e si diventa immediatamente buonisti, in quanto il bisogno di apparire buoni falsa la relazione. Per essere veramente buoni occorre tuffarsi in una relazione senza farsi domande e sfidarla anche con delle ‘cattiverie’: ad esempio sapere che non si può essere sempre benvoluti e che spesso le nostre ‘buone azioni’ potranno apparire ‘cattive’ all’altro socio.  Dunque non solo non bisogna essere buonisti ma neppure buoni.

Perdonare?
Alcuni giorni fa un educatore imprecisato di un luogo imprecisato è stato picchiato di santa ragione da un ragazzo di una quindicina di anni.  Pare che fosse in corso tra i due una scena abituale a metà tra lo scherzo e il serio, ad un certo punto l’educatore ha dato una spinta di troppo e il ragazzo ha reagito come una furia. L’educatore consapevole di quello che stava accadendo non ha reagito e si è limitato a ripararsi.  Poiché questo avviene nel contesto di un imprecisato progetto socio-educativo si è immediatamente messa in moto la macchina ‘educativa’:  bisogna mettere il ragazzo in condizioni di non nuocere e perciò dedicargli insegnanti ed educatori a livello individuale, e dargli un’altra occasione per correggere il suo comportamento.
Se i fatti stanno in questo modo – ed ho omesso i dati di riconoscimento proprio perché non ho alcun elemento per dire quanto questa ricostruzione si avvicini alla realtà – ma provvisoriamente  fingiamo che le cose stiano così,  siamo in pieno buonismo.
Ma soprattutto c’è una idea dell’educazione che non funziona.
Cosa significa dare una nuova occasione: c’è un cammino lineare dallo stato selvaggio a quello civile, qualcuno inciampa. Lo aiutiamo a rialzarsi e speriamo che la lezione gli sia servita.

E’ un’idea che è tanto non rispondente alla realtà quanto invece popolare tra i profani del volgo e i chierici dell’educazione.
Nell’essere umano c’è sempre e continuamente ‘bestialità’ e “civiltà”. La bestia che è in noi è pronta scatenarsi non appena se ne presentino le condizioni. Sant’Agostino - che non aveva letto Freud - fa una descrizione del suo proprio imbestialirsi allo stadio che  resta un capolavoro per intendere questa verità.  Dunque noi dobbiamo fare di tutto per non dare un’altra occasione; l’altra occasione a parità di condizione psichica scatenerà le stesse reazioni. Noi possiamo tenere sopita la bestia evitando quelle condizioni, ad esempio evitare la condizione di interazione multipla del gruppo di lavoro  in cui le tensioni si moltiplicano e si esaltano, e facciamo bene se questa è una misura  di difesa del gruppo e della nostra incolumità, ma non affronta il problema in alcun modo.  Viceversa un intervento educativo consiste nell’aiutare questo giovane a conoscere le proprie violente emozioni e aiutarlo a contenerle.  Il punto di partenza di questa operazione è che il giovane riconosca  il danno creato in questa occasione: i colpi buscati dall’educatore devono diventare la materia prima – sussidio didattico - per un processo congiunto di elaborazione della situazione.

Questo inizio non è poco. Abbiamo avuto casi di giovani che neanche di fronte al giudice del tribunale si sono resi conto del danno inferto, dell’errore commesso ed hanno continuato  ad attribuire ad altri e ad altro il proprio comportamento. Questi casi sono ormai ai confini della patologia e denunciano una grave scissione nei comportamenti che forse non può essere trattata con mezzi educativi ma con una vera e propria terapia.  Dunque il riconoscimento della propria responsabilità è il punto di partenza per l’azione educativa:  non si tratta di ricevere o chiedere delle scuse, si tratta di una presa di coscienza indispensabile per rendere possibile l’azione dell’educatore. Va da sé che l’educatore non porta rancore e che non chiede risarcimenti, ma deve chiedere con grande forza, come proprio dovere professionale, il ripristino delle condizioni di alleanza educativa.

Dunque hanno fatto benissimo il marito della maestra e la maestra dichiarare che non hanno alcun rancore, ma il perdono è un’altra cosa che non appartiene a loro. Il perdono appartiene al ragazzo protagonista e alla comunità: entrambi devono sapere se c’è un individuo incapace di controllare le proprie reazioni, ed incapace di riconoscere il danno che può infliggere.  Dal riconoscimento di ciò il ragazzo può rassicurare se stesso e gli altri che la cosa non si ripeterà per sua volontà e che questa esperienza potrebbe servirgli a elaborare meglio la rabbia. Dopo di questo tocca a coloro che fanno lavoro educativo cercare di capire cosa è accaduto e come evitare che si riproducano i fattori scatenanti (vedi il blog precedente) e come aiutare questo ragazzo ad educarsi ossia a non restare schiavo delle sue elementari pulsioni. Gli educatori non aiutano mai le persone a restare come sono, a scusare i loro comportamenti con qualsivoglia disagio sociale, familiare o psichico, gli educatori devono aiutare le persone a crescere e a migliorarsi. Quando violenza e rabbia esplodono il nostro compito non è schierarci con i buoni che perdonano o con i cattivi che condannano, ma con chi sa amare ed educare i giovani anche e soprattutto quando fanno cose sbagliate. Questo in genere si fa fuori dal clamore dei media, usando la competenza e il pensiero per sostenere chi ancora non ne ha abbastanza e finché non sia in grado di gestirsi da solo.

Che io sappia nel caso nell’educatore non è stato fatto niente di questo tipo e di conseguenza abbiamo un educatore che forse cambia mestiere, un ragazzo che sta sotto sorveglianza ma non ha intrapreso un percorso di rielaborazione; un gruppo di allievi che sente il peso per la perdita contemporanea di un compagno e di un educatore a cui erano abbastanza legati, un gruppo docente che non può non sentirsi frustrato da una situazione che conserva intatti gli elementi di debolezza che sono all’origine dell’episodio.

Dunque io spero che qualcuno voglia occuparsi di questa situazione che in ogni caso immetterà nella società un ragazzo che alcuni definirebbero ‘impunito’  che in realtà è stato lasciato solo con le sue violente pulsioni e che non è in grado di controllarle.
Alle mie colleghe del 48 °Circolo e colleghe di Maria  Marcello, che leggono il mio blog,  prego di dare i miei auguri alla collega ferita, ma anche alle altre colleghe  che immagino a pezzi per quanto accaduto. Io sono disponibile, se ritengono che posso aiutarle con le sole parole - quelle stesse che stanno in questo scritto –, a  dedicare loro il mio tempo libero dall’orario di servizio.
Agli operatori e ai responsabili della seconda situazione, se si riconoscono nel quadro descritto, se ritengono che non si tratti di un parto della fantasia,  faccio appello perché non esitino a ricorrere alla mia modesta competenza o a quella di chiunque altro sia in grado di affrontare una situazione così complessa e per molti versi pericolosa.

Calci alla maestra e calci all'educazione

Video dal TG 2
L’articolo pubblicato da “Il Mattino” on line ha ricevuto oltre 40 commenti, tutti all’insegna del “mal di stomaco”, ossia della reazione viscerale a base di galera, schiaffoni, espulsioni dalle scuole del regno e quant’altro. Solo alcuni reagiscono alle emozioni altrui con sdegno ma pochi argomenti e molti anatemi.
Ho visto al TG2 i commenti del marito e penso che questo da solo valga qualsiasi argomentazione. Se vi è capitato, forse avete visto anche il mio commento.
Leggo poi prese di posizione di amici vari.  Difendiamo la scuola, facciamo appello a chi sa trattare queste questioni, etc...
Quattro giorni prima un  educatore  - in tutt'altra situazione - è stato pestato duramente da un quindicenne  preda di furore scattato ancora più ingiustificatamente.
Colgo l’occasione per cercare di dire a un pubblico più vasto in cosa  è consistita – quando esisteva - la metodologia dei maestri di strada in questi casi.
Prima considerazione: fare una analisi della situazione per grandi categorie non serve. I commenti de “Il mattino”, senza sapere bene chi sia il ragazzo, argomentano che possa essere uno che vive in ambienti violenti e degradati, che abbia dei genitori che lo spalleggiano etc..
Probabilmente c’è del vero ma non sono affatto sicuro che sia così, potrebbe essere vero a egual titolo esattamente la situazione opposta, ossia che si tatti di un ragazzo educato e normalmente tranquillo.
Seconda considerazione: le prese di posizione politiche, morali, pedagogiche, di lotta, non servono.
Noi dobbiamo capire innanzi tutto la situazione, avere una descrizione dei fatti nel loro minuto svolgersi.
Ora poiché non ho nessuna possibilità di indagare dal vivo né avrebbe senso in una situazione in cui non ho possibilità di intervenire a migliorare lo stato di cose esistenti, ricostruisco sulla base degli elementi in mio possesso:
  1. Era il giorno delle prove INVALSI, cioè di un esame molto temuto ed oggetto di polemiche, e comunque una prova durante la quale anche il più distaccato di noi si sente giudicato anzi si auto giudica.  Il giorno prima avevo casualmente visto la dirigente di quella scuola, era totalmente immersa nella lettura di carte che riguardano la prova. Mi sono affacciato a salutarla perché è una mia ex collega.  Tre volte le ho detto buongiorno, non sentiva proprio, alla terza alza la testa: «E’ proprio il momento sbagliato per farmi visita: prove INVALSI». « Sono in visita per questioni di segreteria. Buon lavoro». Conoscendo Rosa sono sicuro che abbia fatto svolgere le prove col massimo del rigore e della serietà, come occorre fare in queste occasioni.
  2. Nei mesi precedenti ci sono stati – anche questo l’ho appreso casualmente recandomi presso l’istituto professionale dal quale dipendevo – seminari con i valutatori INVALSI che avevano ad oggetto alcune singolarità statistiche delle prove a svolte a Napoli che forse dimostravano un non eccessivo rigore da parte di molti.
  3. Conoscendo questi dati ho subito immaginato che la maestra oggetto dell’attacco non fosse la maestra abituale del bambino. L’ho chiesto agli operatori video che pochi minuti prima avevano girato nell’ospedale e ne ho avuto conferma: la maestra era presente per la vigilanza sulle prove. Ed immagino, poiché questo non è un compito di per sé  entusiasmante, che si tratti di una maestra sensibile e motivata.
  4. La dinamica dei fatti: un bambino della classe dice una frase che un altro ritiene offensiva per sè e questo gli lancia un portapenne (un tempo erano in legno di faggio con un coperchio scorrevole, ed ho visto teste rotte per il loro uso improprio) che immagino fosse di quelli morbidi con la chiusura lampo.  Immagino che i ragazzi fossero distanti e che il lanciatore subito dopo il lancio, come è d’obbligo in questi casi, si sia alzato come una furia per raggiungere l’altro: è stato qui che la maestra è giustamente intervenuta scatenando una reazione di rabbia incontrollata.
Dunque ho motivo di ritenere che ci fosse una situazione di grande tensione tra gli operatori scolastici ad ogni livello. E questo sarebbe stato vero comunque perché lo abbiamo sperimentato sistematicamente in prossimità degli esami:  docenti, educatori, coordinatori,  vanno in ansia: basta l’esistenza di uno sguardo estraneo o semplicemente ‘diverso’ dal solito (quindi anche una persona familiare che è presente in un nuova veste) per scatenare “un’ansia da prestazione” che si trasmette amplificata ai ragazzi. Naturalmente tutti dicono che sono i ragazzi ad essere in ansia; in realtà c’è una circuitazione amplificante tra i diversi componenti della piccola comunità  che porta ben presto l’ansia al parossismo finché qualcuno decide di spezzare la spirale con qualche atto che scioglie in modo esplosivo la tensione generale.
L’anno scorso, anche i nostri allievi, reduci da un anno scolastico che definire travagliato è un eufemismo, hanno dovuto sostenere la prova INVALSI.  Svolgendo un’adeguata preparazione – di cui dirò di seguito – nella maggior parte dei casi non ci sono state esplosioni, ma nei casi in cui ciò è avvenuto certamente c’era stata  inadeguata preparazione.
Dunque  sostenere una prova nazionale di valutazione è di per sé una fonte di forte ansia per adulti bambini e genitori; se poi si sa di essere osservati in modo speciale – il sud che fa brutta figura con il nord, i valutatori che ti hanno già criticato, le polemiche intorno alla validità delle prove, la scarsezza dei mezzi a disposizione per fare un buon lavoro educativo – ci si rende conto che l’esplosione del primo bambino è come la pistolettata di Sarajevo: fa precipitare in guerra aperta una tensione di cui l’aria era satura da un pezzo. E come sempre accade in questi casi i primi ad essere disponibili alla zuffa sono i più disgraziati, quelli che in quel momento sentono di più l’intollerabilità della situazione, e ne vogliono uscire costi quel che costi.
La differenza tra il nostro lanciatore di insulti e il regicida di Sarajevo è che quest’ultimo riteneva suo personale nemico l’arciduca, e questo il suo compagno di classe.

Che fare?
La prima regola quando si è nella merda è riconoscere che ci siamo, è condividere il disagio della situazione, ciò serve a dare un nome ad un’ansia che da un punto di vista razionale appare immotivata ed ingiustificata e di cui ci vergogniamo come se fosse la spia di cattiva coscienza. Quando avevo la possibilità di fare il mio lavoro di coordinatore la prima cosa era rassicurare i colleghi che una singola prova non poteva mettere in discussione la serietà e la dedizione con cui avevano lavorato per un anno intero. Certo che potevano esserci risultati inadeguati e questo sarebbe stato oggetto di discussione, ma in ogni caso non poteva essere messa in discussione la loro persona.
Questo è il primo punto: distinguere i risultati dalla persona; i risultati sono la conseguenza di una attività molto complessa e per certi versi imperscrutabile, la nostra reciproca stima professionale è basata sulla frequentazione e la serietà di un lavoro che si svolge per duecento giorni e 1600 ore.  Certo che se abbiamo risultati deludenti dobbiamo discuterne, ma è l’intera organizzazione, a cominciare dal coordinatore, che deve mettersi all’opera per individuare i punti deboli. Noi sappiamo che sono le sconfitte a spingerci verso nuove soluzioni. La cosa importante dell’esame è svolgerlo con la  massima serietà  e serenità in modo da essere pronti ad accogliere anche la sconfitta come fonte di crescita.
Fatta questa operazione con gli adulti essa va ripetuta pari pari con i ragazzi.  Un esame ed una prova hanno significati complessi:
  1.  rendere visibile alle istituzioni che organizzano la scuola quali siano i risultati, e questo è importante perché in questo modo i giovani sanno che  contribuiscono a migliorare il sistema.  Si possono fare tutte le polemiche che si vuole su queste prove,  ma poi  bisognerebbe sostenerle senza riserve perché comunque sono uno strumento che serve al cambiamento, delle stesse prove, se necessario. Sostenere le prove è quindi anche  dire ai giovani che non sono semplici ‘oggetti di osservazione’ ma soggetti per possibili cambiamenti. Per noi che realizziamo un progetto forse è stato più facile dire “Lavoriamo con serietà, facciamo vedere che il progetto ha avuto un senso”.
  2. Rendere consapevoli i giovani del proprio valore.  I ragazzi spesso hanno scarsa autostima, hanno il timor panico di non sapere, spesso sottovalutano le cose che sanno. Esercitarsi in precedenza per dimostrare  a se stessi che le cose che si sanno alla fine vengono fuori è fondamentale. Aiutare i ragazzi a contenere l’ansia che può diventare debilitante e distruttiva è un compito importante a monte delle prove. Noi arriviamo a fare delle simulazioni d’esame il cui scopo è proprio  imparare a gestire l’ansia
  3. Addestrare i giovani e i loro educatori a sostenere gli esami, a considerarli una parte essenziale e ineliminabile del processo i crescita. Superare un esame significa sostenere la prova e saperne accettare ed elaborare le emozioni connesse. Partecipare a un esame con questo significato significa che, qualsiasi siano i risultati, io esco più grande. Più capace di gestire la mia vita perché  conosco i limiti delle mie competenze, e perché conosco meglio la mia capacità di gestire situazioni difficili o frustanti. Noi usiamo dire che l’esame non è solo un tirare le somme di un percorso, ma aggiungere al percorso qualcosa che retrospettivamente valorizza ogni esperienza precedente.
Dunque se c’è stata un’adeguata preparazione su questi punti - e questo non si fa con una predica, ma si fa con attività concrete che mettano in condizione i giovani di riconoscere l’ansia, di impegnarsi al massimo delle possibilità, di riconoscere il valore formativo della prova - i risultati non mancano. Generalmente agli esami i nostri allievi hanno reso meglio di quanto si aspettassero loro e i loro docenti.  In un numero di casi significativo non ci sono state buone prestazioni e questo è stato oggetto di elaborazione da parte dei ragazzi e dei docenti, in pochi casi c’è stata una cattiva reazione nel senso di mancata accettazione dei risultati da parte dei giovani.

Pensiamo invece ad un altro tipo di preparazione agli esami: si cerca di scoprire in anticipo qual potrebbero essere gli oggetti della valutazione, i genitori mettono un preparatore privato, gli insegnanti si affannano a voler colmare le lacune più evidenti,  molti si affannano a trovare  o richiedere escamotage per godere di qualche aiuto  durante le prove,   molti si attrezzano a copiare e a fare quello che da che mondo è mondo si fa in vista degli esami.
Tutte queste cose non fanno altro che accrescere l’ansia, che moltiplicare il peso che sta sule spalle dell’esaminando: deve rispondere di sé, del genitore che ha speso i soldi, dell’insegnante che gli ha proposto un recupero dell’ultima ora, del preside che ci tiene a far fare bella figura alla scuola.
Bisogna sgomberare il campo da tutto questo e lavorare sul rilassamento, assicurare il giovane che qualsiasi cosa accada gli vogliamo bene e siamo lì a sostenerlo per uscirne al meglio. Nel passato anno scolastico per motivi che qui  non espongo, noi sapevamo che un certo numero di allievi sarebbero stati certamente bocciati in quanto i membri della commissione esaminatrice avevano espresso un giudizio inappellabile sulle esperienze pregresse.  Dunque il nostro compito di educatori e di docenti di un progetto di recupero è stato quello di assicurare la nostra massima disponibilità per stare ancora a fianco ai ragazzi e per continuare se possibile in altre forme l’opera cominciata.

Dunque se ritorniamo al caso in esame: sono sicuro che la forte tensione esistente ha avuto un ruolo decisivo, ed ha avuto un ruolo decisivo il fatto che non ci fosse una pregressa conoscenza dei protagonisti. 
Ora è certo  che le prove devono svolgersi con la presenza di estranei e che accettare questa presenza  è a sua volta una prova importante di maturazione; ma è altrettanto certo che l’estraneo non dovrebbe essere investito dagli esaminandi da angosce e emozioni che non lo riguardano. Favorire una conoscenza preliminare, fuori dalla configurazione ‘dura’ dell’esame può aiutare ad umanizzare una figura che diversamente viene percepita quasi come un nemico.
Dunque bisogna aiutare i docenti e la scuola a gestire queste situazioni, soprattutto bisogna aiutarli a pensare su queste cose, ad analizzarle nel dettaglio per trovare nuove strategie e quindi bisogna innanzi tutto dire che docenti ed educatori devono essere messi in condizione di difendersi facendo bene il loro lavoro.

Va da sé che ci vogliono mezzi e quant’altro, ma è altrettanto vero che finché non ci saranno i mezzi dobbiamo comunque  imparare a disinnescare queste dinamiche; se no, non ci saranno fondi ministeriali che basteranno.
Il punto di vista che devono adottare gli educatori è quello di voler aiutare se stessi e ogni altro operatore ad affrontare situazioni difficili ed impreviste.
Altri punti di vista sono molto più interessati a usare il caso come emblema di qualcos’altro, lasciando l’operatore là dove si trova. Io penso che una buona politica, e una buona cultura dovrebbero partire dalla premessa di saper fornire un aiuto a chi sta in mezzo al guado. Ma mi pare che l’atmosfera sia troppo avvelenata dallo scontro politico  e troppo  ideologizzata per ansia da schieramento per curarsi dei maestri e delle maestre che domani mattina andando a scuola potrebbero incappare in un calcio.
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Napoli, NA, Italy
Maestro elementare, da undici anni coordina il Progetto Chance per il recupero della dispersione scolastica; è Presidente della ONLUS Maestri di Strada ed in questa veste ha promosso e realizzato numerosi progetti educativi rivolti a giovani emarginati.