Responsabile significa rispondere.
Uno dei motivi per cui noi Maestri di Strada godiamo di un certo credito presso i nostri giovani allievi è che rispondiamo. Rispondiamo di quello che diciamo e facciamo fino in fondo, e rispondiamo alle loro richieste di comprensione e di soccorso. Il nostro codice deontologico è molto severo e comporta stare vicino ai nostri allievi soprattutto quando sono colpiti negli affetti, anche e soprattutto quando i destinatari di quegli affetti magari muoiono ammazzati, magari non sono affatto innocenti di altro sangue versato.
E bisogna insegnare ai giovani a rispondere, a usare le parole nel modo appropriato, saper sviluppare attraverso le parole una trama di pensiero che consenta loro di rispettare i propri affetti al tempo stesso prendere le distanze da una vita criminale, di convivere per loro disgrazia con la insicurezza delle strade e con la quotidianità del crimine e al tempo stesso cercare di costruirsi una via di uscita. Molte volte la situazione è talmente cruda, talmente bloccata dalle maglie strette di una rete di crimini agiti e subiti che occorrerebbe anche trovare una dislocazione fisica diversa, ma in tanti anni di lavoro nessuna istituzione si è fatta avanti per chiederci se per caso avessimo avuto necessità di qualcosa in più che non i soli strumenti dell'educazione. Così siamo costretti a tollerare l'intollerabile e a cercare comunque di restare vivi e di conservare la dignità nostra e quella dei nostri allievi. Così dal nostro osservatorio tutte le volte che vediamo imbarbarirsi il confronto che dovrebbe essere civile su questioni che toccano direttamente il nostro essere e il nostro lavoro siamo preoccupati. Ogni volta che qualcuno lavora a tracciare linee di fuoco che non possono essere oltrepassate vediamo anche irrigidirsi la sintassi delle relazioni; ogni volta che vediamo usare le parole come armi di invasione, come rumore destinato a occupare uno spazio interiore già saturo di dolore e di altro rumore siamo preoccupati, e sappiamo che l’eco di queste parole sporche si propaga molto più rapidamente che quello delle parole buone: sappiamo che ci sono orecchie che aspettano di sapere che Saviano è un infame, che Saviano chissà che vuole, che è lui a non valere niente e con lui non valgono niente quelli che lo difendono. Dunque per i nostri giovani noi dobbiamo saper rispondere e saper dipanare i fili contorti delle parole astiose. Per noi è un esercizio quotidiano e dovrebbe essere per tutti quelli che vogliono educare e non semplicemente schierarsi. Invio quindi ai miei colleghi e a quanti vogliono seguire la strada del paziente sciogliere nodi e grovigli questo mio scritto su una questione calda. So di non essere abbastanza competente per scrivere qualcosa di scientificamente significativo, tuttavia so che questo modo di fare è efficace ed utile per i nostri allievi. Se qualcuno più competente vuole correggere e migliorare questo mio lavoro gliene saremmo tutti molto grati. Uno dei grandi vantaggi della rete è poter cooperare a migliorare il nostro pensiero. Approfittiamone.
Sintassi della responsabilità e dell’irresponsabilità
Mi riferisco alla polemica innestata dall’intervista al capo della mobile. Ho dato un’occhiata sommaria ai commenti e alla risposta di Marco De Marco direttore del Corriere del Mezzogiorno.
Concordo con quanti dicono che ormai in Italia non è possibile parlare di alcunché senza trovarsi immediatamente ai due lati di una trincea. Ed uno dei modi di creare il clima di scontro e di rissa è di allontanarsi progressivamente dall’oggetto del contendere e accumulare un profluvio di parole che sostengono non la causa, ma la persona che la promuove.
Per disinnescare questo meccanismo secondo me bisogna ritornare sistematicamente all’origine e fermarsi ostinatamente al testo e cercare di dipanare la matassa che intorno ad ogni enunciato verbale si aggroviglia.
Ora provo a far questo esercizio con alcune premesse:
- mi attengo al testo reso noto senza riferimenti al fatto che rispecchi in modo fedele ed efficace il punto di vista di chi lo ha prodotto. Quindi da questo momento ogni riferimento a personaggi reali è arbitrario
- poiché non parlo più di personaggi reali userò dei nomi fittizi: “autore 1” è chi concede l’intervista, “autore 2” è il giornalista, “personaggio 1” è colui di cui si parla; e poi c’è “la camorra”, che non so proprio se è un personaggio, a me sembra una sorta di coro - alla maniera della tragedia greca - che commenta e sottolinea l’azione, ma in questo caso è una sorta di coro fantasma; quindi è il fantasma1; analogamente il popolo è presente sullo sfondo di tutta l’azione ma non si esprime con voce propria è sempre evocato attraverso le parole dei due autori.
Ogni valutazione che esprimerò riguarda il modo di percepire il messaggio, quindi il modo in cui le parole usate possono evocare in noi talune emozioni
Pisani sbuffa: «Già… questo Gomorra».
- Lui non ce l’ha con Saviano, ma brechtianamente col savianismo. Ricordate la riga arcinota di Brecht nella Vita di Galileo? «Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi».
Partiamo da qui. Pisani, che cosa c’è che non va con Gomorra?
L’autore 2 non dice cosa non va “in Gomorra” ma “con Gomorra”. Quell’uffa ha già detto dalla prima parola che c’è un problema di stomaco, un peso che grava: questo Gomorra. Possiamo immaginarci il tono: questo è un aggettivo dimostrativo che qui viene usato proprio per mostrare l’oggetto che pesa. Se dico ‘Carlo mi ha annoiato’ constato solo, ma se ci aggiungo ‘questo’ lo addito, lo faccio vedere, gli conferisco il peso della presenza. Dunque Gomorra sta proprio qui, sul mio stomaco.
«Il libro ha avuto un peso mediatico eccessivo rispetto al valore che ha per noi addetti ai lavori».
- Saviano ha permesso ai non addetti ai lavori di conoscere una realtà criminale mostruosa.
«E questo è un merito. Ma nel libro ci sono inesattezze».
Per prima cosa notiamo il passaggio alla prima persona plurale. Come dire: non parlo per me, parlo per la categoria. Nel rapido giro di due frasi siamo passati da una situazione impersonale, a una situazione in prima persona, alla prima persona collettiva, una sorta di oggettività condivisa. In più abbiamo anche lo strumento di misura di questo peso: è la bilancia dei mass media e ci viene detto cosa sta sui due piatti della bilancia: Gomorra e ‘noi addetti ai lavori”
Dunque abbiamo il primo intervento del “fantasma 2”, il popolo nella sua veste giudicante di opinione pubblica, e abbiamo un altro personaggio collettivo ‘noi addetti ai lavori”. Ora l’espressione “addetti ai lavori” evoca molte cose e soprattutto il fatto che esistono dei professionisti che sanno cosa fare, e che dall’altra parte ci sono i non addetti ai lavori che per definizione non possono né valutare né giudicare gli addetti. E questo viene confermato subito dopo dal fatto che “nel libro ci sono inesattezze”
Ed è come dire che sul piatto della bilancia il peso esagerato attribuito a Gomorra deriva anche da pesi falsi. Ed è inutile che il giornalista sottolinei che si tratta di un romanzo: le inesattezze restano tali, falsano il peso. Il ruolo delle inesattezze è poi importante perché aiuta a spostare l’attenzione dal libro come oggetto mediatico all’autore che lo ha prodotto. Qui non ce l’abbiamo più con il peso mediatico ma con l’autore le cui affermazioni di merito confliggono direttamente con le competenze degli addetti ai lavori.
Un’altra questione importante riguarda il soggetto grammaticale della frase: “il libro ha un peso mediatico eccessivo”. Poteva dire: “l’opinione pubblica ha dato un peso eccessivo al libro” ma in questo caso l’attributo della pesantezza di stomaco si trasferiva dal libro al popolo. Quindi è proprio il libro che ha l’attributo del peso. In questo caso usare il libro come soggetto grammaticale serve a rafforzare il soggetto psicologico della frase e dell’intero brano.
Ma fa una vita infame
Anche l’”autore 2” ha spostato l’attenzione dal libro alla persona del “personaggio1”: le sue sofferenze in un certo senso potrebbero giustificare – a posteriori – le inesattezze o almeno indurre a una indulgenza umana visto che una indulgenza tecnica è – a cospetto di addetti ai lavori - improponibile.
Dopo gli accertamenti demmo parere negativo sull’assegnazione della scorta».
L’affermazione è chiara: noi tecnici sappiamo come stanno le cose: abbiamo dato parere sfavorevole. In questo contesto significa anche: la vita infame se la è voluta lui.
- Ma - ripete l’autore2 per due volte - Saviano le minacce le ha avute in pubblico
Resto perplesso quando vedo scortate persone che hanno fatto meno di tantissimi poliziotti, carabinieri, magistrati e giornalisti che combattono la camorra da anni.
Qui ritorniamo in termini più espliciti alla questione del peso: l‘opinione pubblica falsando i pesi e le misure consente che persone che fanno meno abbiamo più peso delle persone che fanno di più.
Il Signore apprezzava gli animali sacrificati da Abele più dei frutti del duro lavoro della terra offerti da Caino.
Giacobbe rivestiva Giuseppe di vesti più belle di quelle dei fratelli; lui faceva il sognatore mentre loro sgobbavano. E il padre non si accorgeva abbastanza di loro.
Dunque siamo nel pieno di un conflitto invidioso potenzialmente distruttivo.
Non ho mai chiesto una scorta. Anche perché non sono mai stato minacciato. Anzi, quando vado a testimoniare gli imputati mi salutano dalle celle».
Siamo di nuovo ai pesi: questa volta il gancio della stadera sta in mano al fantasma01 che indirettamente distribuisce voti di condotta: io non sono minacciato dai criminali, ho rispetto umano e sono ricambiato.
Non ho mai chiesto una scorta.
Qui c’è una paurosa confusione di ruoli e posizioni:
Potrebbe il capo di un esercito chiedere la scorta?
Il capo di un esercito in un certo senso è scortato dal suo stesso ruolo; o meglio una organizzazione militare è caratterizzata tra l’altro dalla sua capacità di sopravvivere come organismo collettivo e quindi anche dalla capacità di riempire rapidamente i vuoti. La deterrenza rispetto all’omicidio singolo è proprio data dalla inutilità dell’omicidio per il suo autore. Un generale può essere ucciso per vendetta privata oppure perché si è disgregata la sua forza armata, ma non può essere ucciso nell’esercizio delle funzioni. Oppure può essere ucciso quando l’aggressore ha colto segni di disgregazione o di possibili effetti devastanti di una uccisione singola. Giuditta esibendo la testa mozzata di Oloferne sciolse d’incanto il vincolo disciplinare degli uomini del terribile generale che si dettero alla fuga. Il generale Dalla Chiesa (aveva anche lui violato il ‘codice deontologico’?) è stato ucciso quando – forse a ragione – i suoi uccisori hanno pensato che potevano trarne profitto; Borsellino e Falcone per lo stesso motivo e sappiamo benissimo che in questi casi la scorta non è servita a niente. Un generale che abbia bisogno di una scorta personale è un generale che ha già perso.
Dunque dire ‘non ho mai chiesto una scorta’ significa mettersi alla pari con un comune cittadino, lasciare nell’ombra il fatto di essere a capo di una organizzazione militare e competere ‘da uomo a uomo’ con l’altro.
- Ma le minacce ci sono state o no?
«Bisognerebbe avere il coraggio di andare a cercare la giusta causa della minaccia».“Bisognerebbe avere il coraggio” ritorniamo al motivo dei giusti pesi e dell’invidia: qui c’è qualcuno che viene sopravvalutato perché non si ha il coraggio di andare a valutare i suoi errori, che tanto disturbano gli addetti ai lavori. Qui però si fa un passo in avanti:
la giusta causa della minaccia
“La giusta causa di una minaccia” è un pericoloso ossimoro. Intanto non si tratta di una minaccia generica per una punizione legale o far presenti le conseguenze spiacevoli di proprie azioni (la giusta causa nel licenziamento si riferisce a qualcosa di spiacevole che può avere cause indipendenti da una volontà punitiva e in questo senso è un ossimoro di ‘garanzia’) ma come è possibile una giusta causa in una minaccia alla vita?
La domanda era: ma le minacce in tribunale erano vere, erano meritevoli di scorta?
La risposta adeguata sarebbe stata: “anche in questo caso le valutazioni tecniche hanno dato esito negativo”. Oppure ‘il personaggio ed il contesto’ non destavano preoccupazione (cosa che sarebbe difficile sostenere).
Niente di tutto questo. La frase esplicitata significa: sì, le minacce ci sono state, ma sono giustificate, anche le minacce se le è chiamate il personaggio 1: c’è una giusta causa per le minacce.
Poniamo che fosse successo l’inverso: che la madre di una delle vittime di camorra avesse gridato in tribunale ‘se esci di galera ti ammazzo con le mie mani’ noi non avremmo detto che c’era una giusta causa della minaccia, avremmo detto che c’era una giusta causa per la rabbia ed il dolore della signora, così come certamente anche i criminali hanno motivi di rabbia, rancore e vendetta, ma mai questi motivi umani degradati potrebbero indurci a qualificare giusta l’azione che ne scaturisce.
Spostare l’aggettivo giusto dalla qualificazione dei sentimenti alla qualificazione dell’azione è un crimine linguistico: significa cambiare proditoriamente il campo semantico, da quello della comprensione umana dei sentimenti e delle emozioni a quello dell’opportunismo sociale.
Alla richiesta di spiegazioni nuovamente il nostro autore N°1 uno si misura personalmente: io rispetto le signore in sottoveste anche se sono criminali (… la moglie era svestita. Io gli ho proposto di far entrare due agenti donne. Lui ha acconsentito e ringraziato).
Sul rispetto umano dei criminali Falcone aveva già detto parole definitive: era stato accusato di portare cannoli ai criminali; lui negò la circostanza di fatto ed aggiunse che lui per rispetto intendeva non ingiuriare o umiliare i criminali arrestati con gesti di disprezzo. “Io li tratto con educazione ma tra loro e me c’è sempre una scrivania”. La scrivania del magistrato che amministra la giustizia.
Molti raccontano di criminali che ‘signorilmente’ si arrendono di fronte ai mitra spianati. Ecco il rispetto e la buona educazione cominciano nel momento in cui sei nelle mie mani e ti ho messo in condizioni di non nuocere. Chi bussa alla porta armato ed in divisa direi che ha il dovere di essere gentile ed educato, e perché può e deve permetterselo, perché è forte e questo è parte della sicurezza di sé e della fiducia nella forza armata che guida. Chi si lascia andare a ingiurie, percosse, atti umilianti non rispetta né se stesso, né la divisa che indossa e in fondo non è in grado di gestire quella forza che pretende di guidare. Dunque di nuovo qui non c’è un confronto da uomo a uomo ma il confronto tra un rappresentante dello Stato e della sua forza armata da un lato e dall’altro un civile indifeso – ancorché scortato - che ha scritto un libro e che è stato tirato dentro una guerra di trincea che non evolve.
Dunque se De Marco – che ha esplicitato il pensiero dell’attore 1 - è disturbato dalle parole ‘non valete niente” dette per nome e cognome (dal personaggio1) tenga presente questo. Dire ai criminali che non valgono niente è un attentato linguistico che può costare molto caro e credo proprio che il personaggio1 sia l’ultimo a non saperlo. Pronunciare quelle parole in casa di chi fa della competizione d’onore, di forza e di valore il suo credo, a chi vive del timore che incute a distanza la sua forza, è una sfida alle “fondamenta semantiche del crimine”. E allora perché non pronunciarle, perché si continua ad avallare - pur nella condanna del crimine - una immagine di grandezza dei criminali, una immagine di ‘eroismo’ criminale, di genialità nel male. Sono ossimori intollerabili o tollerabili solo se si accetta una scissione delle intelligenze che è essa stessa intollerabile. Intelligenza e genialità, se queste espressioni hanno un senso, sono attributi complessi e riguardano contemporaneamente i diversi tipi di intelligenza da quella ‘meccanica’ a quella emotiva e relazionale. Dichiarare ‘intelligente’ ciò che è intriso di rabbia disperata, di violenza senza fine, di istinto di sopraffazione, non è un buon servizio che rendiamo a noi stessi e ci porta a sopravvalutare sistematicamente il crimine e la sua forza e a nutrirlo con raffigurazioni irreali. La colpa più grande del personaggio1 è proprio linguistica perché ha colpito sistematicamente le falsificazioni dei camorristi e dei tanti che pur volendo combattere la camorra non riescono a distinguere la propria sintassi da quella della camorra e adottano atteggiamenti simmetrici piuttosto che atteggiamenti inclusivi che tendono cioè a costruire una trama linguistica e sociale che aiuti l’elaborazione del conflitto piuttosto che la sua ripetizione senza fine.
E poi dare un’immagine eroica della lotta alla criminalità rischia di essere controproducente.
Io non so se quella “e” iniziale sia dovuta all’autore1 o all’autore2. Ma propendo per la seconda ipotesi perché quella congiunzione da sola ci dà il clima: una congiunzione si dice che unisce due parti di un discorso o due elementi di un sintagma. Ma una "e" iniziale che cosa lega?
Se fossimo dei computer faremmo la domanda che sempre ti fa word quando fai un elenco: “vuoi continuare l’elenco precedente o riprendere la numerazione”? Certe volte hai cominciato la numerazione sette pagine prima e il dannato programma se ne ricorda. Invece gli umani sono di memoria corta e non si ricordano di aver cominciato un elenco. Qui l’autore numero due usa una sua piccola astuzia, e si collega all’elenco delle cose che pesano, ai motivi del mal di stomaco per Gomorra.
Ma quell’”e” continua anche un altro possibile elenco: quello dei motivi per cui io posso fare quello che faccio: il mio potere, la mia forza.
Tu inquini la mia acqua dice il lupo
Ma sto più sotto di te? Dice l’agnello
E poi ieri tuo padre ha sparlato di me.
Dice il lupo e lo divora.
Quell’”e” è la voce del potere, è un invito a non fare obiezioni dialettiche: sappi che a qualsiasi tua obiezione io aggiungerò un altro motivo, perché sono più forte e sono io che ho il potere di attribuire le colpe, non i fatti.
Dare una immagine eroica della lotta alla criminalità è controproducente.
Una affermazione da condividere al millesimo. Ma che c’entra? Dove è il soggetto psicologico della frase? Io che leggo penso che l’opinione pubblica non dovrebbe riferirsi agli eroi. La frase di Brecht ce l’ha con il popolo non con gli eroi. Ce l’ha con chi si fabbrica degli eroi per esimersi dalla battaglia. E se uno si trova a fare l’eroe perché in quel momento è necessario, cosa deve fare? Ritirarsi perché sennò il popolo si corrompe? E chi si trova a fare l’eroe suo malgrado perché alle opposte fazioni conviene servirsi dell’eroe, come fa a sottrarsi? Questa mi pare una bella e solidale domanda a cui non ho risposta. (racconterò un’altra volta la storia di Alì che condannato ingiustamente a morte e messo in mezzo a vari giochi di potere riuscì a salvarsi)
E di nuovo mi pare che scambiamo le cause con gli effetti, ciò che sta a monte con ciò che sta a valle: sono gli eroi a inquinare il limpido ruscello in cui si abbevera più a monte il popolo o viceversa abbiamo un fiume in piena inquinato di paura, distrazione, impotenza, rispetto al quale qualsiasi rivolo limpido appare come una strana anomalia?
- L’eroe anticamorra dà speranza. E aiuta a sensibilizzare i cittadini sui fenomeni criminali.
«Ma rischia di allontanarli da una collaborazione reale con lo Stato. Noi dobbiamo trasmettere sicurezza. Se un cittadino vede che chi combatte la criminalità per professione ha bisogno di vivere blindato sotto scorta, pensa: “Io, che sono indifeso, non posso fare nulla”».
Dunque siamo tornati al tema iniziale e alla confusione di ruoli iniziale: è diseducativo far vedere che chi combatte la criminalità per professione ha bisogno di vivere blindato. Già ma il personaggio1 non combatte la criminalità per professione questo è il ruolo dell’autore1, che infatti non vive sotto scorta. Il cittadino pensa ‘io che sono indifeso non posso fare nulla’. Ecco dunque finalmente un motivo professionale vero: quello della collaborazione del cittadino indifeso.
Cittadino indifeso.
Quale è l’assunto? Il cittadino che si sente indifeso collabori, ossia faccia l’eroe. Già perché se il cittadino si sente indifeso e collabora significa che è disponibile a correre un rischio elevato. All’opposto il cittadino che si sente ben protetto si sottintende che sia disponibile a collaborare. Quindi un cittadino che collabori pur sentendosi indifeso è necessariamente un eroe o peggio un incosciente. La presenza di un eroe protetto quindi mette in evidenza una falla complessiva della pubblica sicurezza. Infatti è proprio così, è proprio vero.
Un personaggio1 non solo vivo, ma attivo, che si fa sentire, che fa l’elenco dei criminali che mancano all’appello delle carceri, è una presenza scomoda innanzi tutto per gli addetti ai lavori che sono continuamente sferzati dall’opinione pubblica che ascolta “uno che pesa troppo”. Allora finalmente capiamo la giusta causa del risentimento del nostro autore 1: il personaggio1 costituisce una sorta di pungolo che non lascia agli addetti ai lavori la possibilità di fare tranquillamente il proprio lavoro. E capiamo anche come i colleghi dell’autore1 siano solidali con lui: si è fatto il portavoce degli addetti ai lavori che mal sopportano la vigilanza dell’opinione pubblica. Dunque come sta accadendo per troppe cose di fronte a chi con la sua testimonianza di vita solleva un problema vero e serio, la questione non è come affrontare il problema, ma è come mettere a tacere il testimone, screditarlo, fare in modo che la sua voce resti inascoltata. Che poi questo metta repentaglio la vita del testimone in oggetto si tratta come al solito di un effetto collaterale indesiderato e quindi scusato a priori.
In passato molti hanno pensato che dinamiche di questo tipo derivassero da complotti o da intelligenze con il crimine. Non ce ne è bisogno: il meccanismo dell’invidia, la dinamica espulsiva che attivano in generale i corpi autoreferenziali, la somma delle miserie umane ammazza di più che non un piccolo gruppo di congiurati, è per questo che mentre bisogna difendersi dai disonesti oggi occorre disinnescare sul lungo periodo il modo di produzione che porta ai vertici di organizzazioni importanti persone tanto irresponsabili e il modo di produzione di sudditi impotenti che non possono far altro che applaudire un eroe o il suo opposto. E questo è un compito educativo di chiunque voglia essere responsabile.
Infine vorrei pronunciarmi su due cose: la scorta e il ruolo dell’autore1
La scorta è necessaria per il semplice fatto che se ne è parlato pubblicamente, che abbiamo dato a questa entità “ camorra” una indicazione precisa su come operare per avere un sicuro profitto, le abbiamo fornito il capo sacrificale mozzando il quale essa è sicura di un effetto di potenza. Ora non conta che il personaggio1 sia o no un eroe, se sia o no fastidioso per la Camorra, ora conta il fatto che dai due lati della trincea c’è un accordo su quale sia il simbolo significativo. Questo è di una violenza inaudita, qui ed ora, per il personaggio1 ed è un rischio futuro enorme per lui e per tutti noi. La prima regola infranta per non portare acqua al mulino degli eroismi o peggio dei martiri è la regola del silenzio e della discrezione. Se veramente l’autore 1 voleva combattere l’eroismo doveva tacere rigorosamente sulla questione così come noi cittadini non dovremmo avere alcuna morbosa curiosità per essa, essere un po’ meno fan e un po’ più protagonisti di silenziosi cambiamenti..
Il secondo punto è: ammattendo che l’autore1 che esce da questa intervista corrisponda alla realtà, ossia che esiste veramente un capo della mobile che dice quelle cose e con quelle precise parole (ma so già che bisogna farci la tara) ma se esiste sul serio può svolgere il ruolo assegnatogli?
Rispondo per me: facendo un lavoro infinitamente meno rischioso io non potrei lavorare con una persona che confonde pericolosamente le proprie emozioni con il proprio ruolo; non potrei lavorare con una persona così egocentrica da assumere sistematicamente la propria esperienza come metro di misura dei comportamenti dell’universo mondo.
Non potrei lavorare con una persona che non è consapevole di avere un potere pubblico, che gioca continuamente a misurarsi “da uomo a uomo” quando veste una divisa che dovrebbe garantire a ogni cittadino di potere essere un uomo senza i condizionamenti della violenza.
Ma soprattutto non potrei lavorare con una persona che dimostra un uso della lingua così poco rispettosa della sintassi e della grammatica da indurre sistematicamente se stesso e gli altri a gravi errori di comunicazione dei significati. Che induce gravi confusioni tra ciò che è giusto e ciò che non lo è; che arriva giustificare un crimine come la minaccia di morte.
Non potrei lavorare con una persona che non risponde né di se stessa né delle parole che pronuncia perché sono parole intrinsecamente contraddittorie, cariche come sono di emozioni incontrollate e di livori personali. E non so come ad una persona del genere possa darsi alcun incarico di rilievo pubblico.
Se poi i giornalisti di Repubblica amano o disprezzano il capo della mobile in modo incoerente la cosa riguarda loro e non intacca in niente il giudizio autonomo che ognuno di noi dovrebbe sempre farsi quando si toccano questioni che riguardano la vita di tutti e non solo la resistibile carriera di un poliziotto.
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