martedì 21 settembre 2010

Niente di nuovo sul fronte orientale -16 settembre 2010 -



La periferia orientale di Napoli, un tempo sede dell'industria pesante e manifatturiera, oggi è sede di numerosi istituti di istruzione superiore che ospitano i giovani delle tre periferie, San Giovanni, Barra Ponticelli. 
Dopo aver detenuto il record dell'analfabetismo i tre quartieri hanno avuto il record della dispersione scolastica nelle scuole medie, oggi hanno il record della dispersione alle scuole superiori, Il problema quindi è stato promosso. Qui una descrizione del fenomeno allo 'stato nascente'

Fuochi d'artificio 
A mezzanotte del 31 dicembre del 1980, invece di farmi stordire dai botti dei miei rumorosi vicini di San Giovanni, salii sul Vesuvio a godermi la vista. Era una notte chiara, spazzata dal vento, la penisola Sorrentina, le isole, i monti del casertano erano scolpiti nel cielo blu, luci bianche e gialle disegnavano la mappa dei paesoni della provincia tra Napoli e Caserta da un lato, quella dell’agro Sarnese Nocerino dall’altro. La conurbazione Napoli Caserta Salerno era visibile in tutto il suo scassato intrico, senza alcuna possibilità di indovinare un disegno, né intorno ad un fiume, né intorno ad un asse viario, né lungo un crinale montuoso: solo lungo gli assi della più assoluta anarchia.
I botti non hanno un vero inizio: impazienti di tutta la provincia fanno esplodere i loro potenti petardi e in distanza si intravedono lampi che improvvisamente illuminano palazzi colorati, vicoli bui. Quando i fuochi cominciano ad intensificarsi si realizza uno strano fenomeno: sembra che ci siano dei ‘fuochisti’ che si sincronizzano, anzi diverse squadre lo fanno in alternanza cosicché appaiono nel corpo di quella conurbazione incoerente dei veri e propri movimenti, come di un grande animale, un dragone che avanza divincolandosi. A mezzanotte, quando l’intensità cresce, si stabilisce un vero e proprio ritmo, una sorta di respiro un po’ affannoso che il grande animale segnala con l’accensione intermittente di lunghe catene luminose lungo le creste della sua corazza. E mentre in terra si delinea questo fantastico disegno in cielo sale una nebbia azzurrina e disegna specularmente alla conurbazione una nuvola che si espande minacciosa su di essa rendendola via via sempre più confusa con lo sfondo nero della notte.
Fu allora che ebbi la visione precisa di come sia il pensiero e lo sguardo dell’osservatore a dare una forma a fenomeni che di per sé non l’hanno e come sia la parola che ne riferisce a conferire un senso a ciò che non lo ha.

Una mattinata di ordinaria paura
Il 16 settembre 2010 avevo appuntamento con una squadra di 14 volontari che dovevano incontrare 206 giovani che mettevano piede per la prima volta nell’Istituto Professionale Sannino-Petriccione. Alcuni di questi erano veterani, altri incontrati e preparati nei giorni precedenti, altri appena collaudati il giorno precedente, altri ancora arrivati solo ora attraverso le catene ‘fiduciarie’ che ancora esistono. Faccio per distribuire le coppie e constato che non ne ho a sufficienza, qualcuno deve restare solo. Allora un bel numero, tranne una giovanissima psicologa, cercano di sottrarsi al restare soli: hanno paura ed è molto bello ed importante che si sia stabilito tra noi un clima per cui nessuno esita a dichiarare nel modo più semplice e più tranquillo la propria paura. La mia paura in realtà è moltiplicata per quattordici e anche per ventotto: temo per come si realizzerà l’impatto , per come reagiranno in caso di ’insuccesso’ altri 14 docenti nei confronti dei quali abbiamo preso questo azzardo. Poi vedo Sabrina, l’aspetto minuto e gentile di una ragazzina di scuola media, infiltrata tra i grandi delle superiori – in realtà una laureata in psicologia - che incoraggia la sua amica che opera quotidianamente al SERT - e quindi non ha certo paura di confrontarsi con realtà difficili - e prendo i suoi incoraggiamenti anche per me. Sia chiaro che non sono un incosciente, in un certo senso sono uno specialista del primo impatto, ho discusso con i docenti della scuola proprio spiegando che nella relazione con i nuovi allievi è importante il primo minuto della prima ora del primo giorno di scuola. Una parola sbagliata, uno sguardo traverso, un tono eccessivo hanno conseguenze tremende. L’imprinting degli animali è direttamente proporzionale alla precarietà della loro vita, un animale da preda deve imparare a riconoscere la madre in pochi minuti perché entro pochi minuti dovrà anche imparare a fuggire. Un uomo impaurito dalla vita, impiega frazioni di secondo classificare gli sconosciuti che incontra in un ambiente sconosciuto come amici o nemici. Dunque siamo preparati, abbiamo detto quali sono le parole da non pronunciare, i gesti da non compiere, le parole da dire, le posture da assumere. Il fatto che i giovani volontari abbiano studiato psicologia o abbiano una esperienza da educatori ci aiuta molto, capiscono a volo quanto siano importanti queste cose, quanti significati si leggono dietro gesti elementari. E nonostante tutto, nonostante ripetute esperienze positive, c’è la paura del primo impatto e la paura della paura: sentire che possiamo aver sopravvalutato noi stessi, che questa volta non ce la faremo. Dunque il primo istante è critico anche per noi. Ma viene stemperato dal fatto che incontriamo i nostri ragazzi nella grande aula del teatro, che il gruppetto che si forma intorno alla coppia di giovani operatori sembra proteggerli e proteggersi nella vastità anonima di un anfiteatro da 500 posti. Il tragitto dal teatro alla classe cementerà attraverso il cammino comune negli ampli e deserti corridoi questa prima conoscenza. Dunque il primo passo è stato fatto senza danno; come spesso accade il primo passo è silenzioso da entrambe le parti ed è un bene perché le parole sono fonte di equivoci.
Dall’altro lato, tra i ragazzi, si leggevano sguardi altrettanto spaventati. Il nostro compito era di riuscire a dare un nome a quella paura, a leggere un disegno in quel quadro incoerente, aiutare i giovani a trovare un senso in quella loro presenza, insieme, in quella squallida aula.
Dunque un primo gruppo di allievi se ne sta seduto nei banchi, immobili, abbarbicati fisicamente al banco come se costituisse uno scudo, sembrano i più disciplinati, in realtà sono i più impauriti, aspettano con terrore l’evolversi degli eventi. Quelli che hanno un banco individuale lo inclinano lievemente verso di sé ed accentuano questa idea di fortificazione. I giovani di questo tipo, nei casi che ho osservato direttamente, sono nelle ultime file; poi c’è una fila più mobile, che si appoggia al banco come gli atleti ai blocchi di partenza, stanno leggermente inclinati e di sbieco pronti a scattare, aspettano l’occasione per partecipare a qualche ‘fuoco d’artificio’; infine c’è la prima linea, che nel banco non ci sta , che lancia continui attacchi a chi è in posizione di autorità, ma in realtà anche al gruppo: non appena il gruppo sembra disegnare qualcosa, costruire un discorso, loro rompono, agiscono la condizione fisica della instabilità, della necessità di fuga.
Ben presto questi attacchi cominciano ad indirizzarsi in una unica direzione: uscire dalla classe. Questa convergenza viene creata dalle nostre stesse reazioni: alla prima volta che proviamo a dire che non è possibile uscire, che non è giusto uscire quando si sta sviluppando una conversazione, comincia il fuoco di fila, ossia tutta la fila spara nella stessa direzione; a questo punto è raggiunto il primo involontario obiettivo di coalizzare il piccolo gruppo. Comincia così un andirivieni verso la porta: uscite e rapidi rientri, incontri tra gruppi di fuoriusciti delle altre classi; molti si conoscono, molti altri si riconoscono: lo stare fuori in quel modo è il segno distintivo di uno stesso disagio, di uno stesso modo di non affrontarlo; incomincia a delinearsi la sagoma del dragone che ben presto percorrerà i corridoi della scuola.
Questa banda si aggira nel vasto e squallido corridoio alla ricerca di qualcosa, si muove come una muta di lupi, in testa quelli più audaci ed aggressivi dietro a grappolo quelli via via più timidi, l’estensione orizzontale della fila compensa la scarsa audacia; ultimi, in ordine sparso, quelli che non riescono ad intrupparsi, che non hanno neppure la capacità di riconoscersi nell'orda, che aspettano la mischia per esprimersi in modo anarchico.
Il gruppo si aggira senza meta nel corridoio finché individua un filo elettrico penzolante. Questo diventa l’occasione per una prova di ardimento: alcuni lo scavalcano, altri ci passano sotto, è una sfida da raccogliere. Il gioco finisce quando uno dei capi naturali dice: e in questa scuola insegnano gli impianti elettrici? ( in realtà si tratta di uncavo telefonico probabilmente inattivo, e loro lo hanno capito bene, ma conveniva che esso fosse rappresentato come un pericoloso cavo carico di elettricità; chi scrive, tra la costernazione degli astanti che vedevano venir meno un elemento scenico importante, lo ha 'rimesso a posto' ancorandolo ad un grosso chiodo piantato nel muro in tempi remoti per quello scopo, ma che con l'usura del tempo si era messo a testa in giù liberando il cavo dal suo ancoraggio) Ora la banda è diventata un “movimento politico”, ha individuato il motivo ideologico che la può rappresentare: la scuola non funziona come dovrebbe. Un altro ragazzo più costruttivo, manipolando con disprezzo una maniglia rotta, spingendo col piede un termosifone traballante, scuotendo una porta squinternata dice: ma poi le cose rotte le aggiustano i ragazzi?
Un insegnante della terza ora trova la classe completamente vuota, tenta invano di farli rientrare in classe, poi scende a chiamare il preside. Si sentono i primi commenti aggressivi e parolacce mormorate al suo indirizzo. Il preside arriva dopo poco facendosi precedere da una ingiunzione fatta con voce squillante: tutti in classe. Nello spazio di tempo che c’è tra il sentire la sua voce e il salire i tre gradini che consentono alla sua testa di emergere dalla tromba delle scale, la banda è dispersa e tutti sono ritornati nei banchi e siedono in silenzio. Il preside scompare in una delle classi e quelli che si sono seduti si guadano smarriti intorno, orfani di un incontro ravvicinato con la massima autorità.

Nello spazio di poche ore ha preso corpo un disegno: c’è un corridoio grande come una piazza d’armi, dei bagni fatiscenti e maleodoranti che sono terra di nessuno dove si incontrano i fuggitivi, gli uomini in fuga, che si riconoscono attraverso i segnali che sono quelli delle adunate allo stadio, delle risse, delle scorribande nel quartiere e ci sono quelli che stanno nel banco e che intavolano qualche interazione con i docenti. Lo spazio del corridoio è lo spazio delle emozioni agite, del dragone mostruoso che dando senso a incoerenti movimenti divora il tempo delle persone, lo spazio della classe ha un disegno semplice e precostituito che non è in grado di contenere il prorompere di tutto questo e che sarà ben presto sopraffatto o ridotto a residuo infelice di un grande gruppo che poteva essere vitale.

Chi ha paura di chi
Quelli seduti nei banchi hanno paura dell’aggressività degli altri, sentono oscuramente che ci sono ragazzi abituati ad una vita violenta, che aggrediscono senza motivo apparente, che mettono tutto sul piano dell’aggressività; hanno anche paura dell‘aggressività istituzionale ossia della possibilità che l’istituzione li punisca e li privi di qualcosa di importante. Alcuni di questi ragazzi potrebbero smettere di venire a scuola proprio perché per loro è troppo penoso reggere questa situazione, la loro mente è troppo occupata in attività di difesa per potersi impegnare nell’apprendimento.
Quelli della linea di attacco sono convinti che in quel posto loro non potranno mai riuscire, che nel gioco della scuola usciranno sempre sconfitti, la loro attività è quindi duplice: stare rigorosamente fuori di quel gioco, non accettare alcuna offerta di collaborazione, attaccare sistematicamente i custodi e i garanti di quel gioco e possibilmente far crollare l’intera organizzazione. Nel momento in cui si dimostri la fragilità è l’incapacità dell’istituzione, viene meno lo scenario che li vedrebbe sconfitti. Al tempo stesso restano delusi dall’assenza di un valido interlocutore a cui opporsi. Molto volentieri quindi giocano a guardie e ladri, ossia recitano il copione della distruzione per poi recitare quello della ricostruzione: questi ragazzi hanno un bisogno ossessivo dell’autorità, che questa ci sia, che si faccia sentire cosicchè loro possano recitare l'unica parte che conoscono: quella del demolitore. Una situazione riflessiva, un cerchio in cui scambiare parole alla pari è per loro fortemente angosciante, li mette dentro un gioco che non conoscono e dagli esiti per loro imprevedibili e minacciosi.
E di cosa abbiamo paura noi? Di molte cose assieme, quella più elementare, quella che accomuna forse tutti coloro che devono stabilire relazioni con gruppi umani in situazioni potenzialmente conflittuali è l’esplosione della violenza. Per violenza non intendo necessariamente menare le mani, ma intendo la distruzione sistematica di ogni ipotesi di discorso, l’esplosione incontrollata di pulsioni elementari e soprattutto il loro effetto contagioso nella massa. Ognuno di noi sente in modo più o meno oscuro, che l’esplosione della violenza ci lascia inermi, impossibilitati ad agire se non agendo noi stessi la violenza ed è questo soprattutto che temiamo: la destrutturazione del nostro io in una situazione caotica. Noi non abbiamo paura di poter subire una qualche offesa fisica, una qualche offesa morale, ma abbiamo soprattutto paura della nostra reazione, della possibilità di perdere il contegno, cioè di perdere il controllo di una identità faticosamente costruita.
La seconda paura che amplifica questa è specifica di chi sta tentando una operazione nuova e al limite: perdere il controllo di sé dì significa anche perdere ogni credibilità rispetto alla propria professionalità e compromettere il gruppo professionale di cui si è parte. Dunque la paura di chi tenta azioni audaci è più forte degli altri.
La terza paura riguarda il proprio sapere disciplinare, ossia il fatto che nel dilagare della violenza non ci sia alcuno spazio, per la trasmissione del proprio specifico sapere, e quindi di perdere la propria ragion d'essere nel contesto scolastico.
Dunque intorno a questo incontro si addensano nubi minacciose ed è molto difficile riuscire a vincere queste paure e a sviluppare una attività positiva.

Risolvere un problema essendo parte del problema
La prima regola di fonte a un problema complesso ed intricato e nel quale i solutori fanno parte del problema è scomporre il problema, affondarlo a piccole dosi nello spazio e nel tempo. Gli operatori possono essere preparati ed addestrati in anticipo, possono sperimentare in situazioni diverse e a fianco di veterani le soluzioni ed i modi di agire. La preparazione deve essere di tipo teorico, cioè avere una descrizione sufficientemente accurata del fenomeno che si sta affrontando, avere una interpretazione plausibile. Senza un quadro teorico gli operatori sono preda di stereotipi sociali, di concetti presi dal linguaggio comune che li rendono indifesi rispetto a evoluzioni complesse dei fenomeni. La preparazione deve essere anche di tipo addestrativo, ossia essere finalizzata ad avere la destrezza e la prontezza di risposte immediate e non riflesse di fronte agli imprevisti. La destrezza si raggiunge solo facendo ripetuta esperienza di situazioni simili e imparando a dare in modo automatico risposte sufficientemente appropriate. Per addestrarsi serve necessariamente operare per un certo tempo a fianco di una persona esperta, sicura di sé, sicura di saper fronteggiare gli imprevisti.
Il secondo punto di forza è operare in gruppo: il gruppo conferisce forza all’individuo, un gruppo può offrire risposte differenziate può facilitare a ciascun membro il compito di riflettere, di pensare rapidamente ad una soluzione senza essere troppo pressato, consente una alternanza tra momenti caldi e freddi. Molti pensano al gruppo solo come alla moltiplicazione delle forze, si tratta invece di una integrazione, della possibilità di differenziarsi nell’azione comune e non la frammentazione dell’azione in tanti piccoli fronti.
Una volta coinvolti nell’azione è necessario agire avendo sempre presente che il nero non è mai così nero come sembra, che esistono sempre zone che ad una osservazione più attenta appaiono più chiare. Un adolescente che ti aggredisce dicendo che l’unica frazione che conosce è contenuta nella frase “ci hai scassato tre quarti di c.” sta anche segnalando che lui qualcosa delle frazioni sa, e che però vuole mantenersi in un suo linguaggio. Riuscire a cogliere a volo questi piccoli segnali di apertura è il difficile lavoro di aprire dei canali di dialogo. Per poter cogliere questi segnali è assolutamente indispensabile sapersi mettere dal punto di vista dell’altro, capire come l’altro, dal suo punto di vista, legge la situazione. Questo è possibile solo attraverso una capacità empatica, ossia riconoscendo che ciò che vivono i nostri interlocutori lo abbiamo vissuto e lo viviamo in forme diverse anche noi.
Un docente ed un educatore che si senta “diverso all’origine” dai nostri adolescenti aggressivi non potrà mai dialogare con loro. ‘Diverso all’origine’ significa ritenersi quasi di un’altra specie, dire a se stessi – e talora urlare pubblicamente – “io non sono come loro”, mette una distanza che nessuna buona maniera e nessuna accoglienza potrà colmare. Pensare che “alla fine” siamo diversi significa essere consapevoli del fatto che c’è un cammino difficile da percorrere e che il fatto di averlo in parte compiuto non ci autorizza a sentirci irrimediabilmente superiori. Questo tipo di umiltà non ci si può limitare a dichiararla come intercalare di un discorso politicamente corretto, ma occorre averla vissuta attraverso la sofferenza dell’insuccesso, attraverso il travaglio del desiderio di fuga e di resa, solo se abbiamo esplorato - e continuiamo ad esplorare - le nostre parti deboli e paurose, le nostre parti aggressive, invidiose, gelose, possiamo capire - cioè leggere e considerare - le paure, le gelosie, le aggressioni degli altri. Deriva da questo la necessità di disporre in un progetto educativo della possibilità di riflettere in gruppo sulle proprie emozioni sotto la guida di professionisti che abbiano fatto dell’esplorazione della psiche la propria competenza.
Ed è anche necessario salire su un monte durante una notte buia per vedere da lontano come si muove il drago che vive imprigionato nell’informe intrico delle relazioni che si realizzano in una comunità educativa. Fuor di metafora è necessario per ciascuno dare un senso alle proprie azioni e ai propri movimenti che sono assorbiti ed asserviti all’incoerente movimento di giovani adolescenti disagiati. Una guida riflessiva per il gruppo serve a dare un senso, a costruire una storia, ad avere memoria e coscienza delle proprie azioni. Senza di questo un gruppo di lavoro è condannato a ripetere infinite volte gli stessi errori. Così come cresce l’individuo così deve crescere il gruppo attraverso una propria storia evolutiva e attraverso una propria memoria una propria identità.

Questa regola riguarda tutte le organizzazioni complesse. Una organizzazione complessa non può essere ricostruita solo sulla base di protocolli, regole, competenze. Per ereditare un patrimonio professionale è necessaria una lunga comune frequentazione. E’ possibile costruire una organizzazione con caratteristiche esteriori simili, ma è necessario cominciare una nuova storia, costruire una nuova memoria, e tuttavia possiamo assumere una lezione dalle esperienze precedenti, facendo in modo che la necessità di tutelate la storia e l’identità di un gruppo non costituisca un credo identitario dei suoi membri ma una necessità professionale riconosciuta dai committenti istituzionali di un progetto.

Smentire il futuro
In questo momento in oltre cento istituti professionali e tecnici della provincia di Napoli cominciano o ricominciano il loro primo anno di scuola superiore in 7-800 classi circa 20-24.000 giovani. Di questi 7-8000 sono destinati a non passare al secondo anno; molti di loro smetteranno di frequentare entro il mese di dicembre. Moltissimi passeranno le loro ore uscendo sistematicamente dall’aula, creando situazioni di disturbo, urlando nei corridoi, fumando nei bagni, aggredendo verbalmente, talora fisicamente, i docenti. Il loro movimento incoerente visto da lontano disegna un gigantesco mostro che divora intelligenza e vitalità. Intorno a loro migliaia di insegnanti soffrono senza poter intervenire in modo efficace, centinaia di dirigenti scolastici si barcamenano senza poter adottare strategie utili.
Io penso che bisogna dare una risposta al problema nella sua interezza, costruirla con pazienza insieme, sapendo che si tratta di un problema difficile di cui nessuno ha la soluzione e su cui tutti possiamo intervenire se abbiamo pazienza e se ci dedichiamo facendo i piccoli passi necessari. Si può cominciare da un punto qualsiasi, si può cominciare lavorando su dieci classi invece che su 800 ma bisogna avere una strategia per 800 classi, al di fuori di questo fare dei progetti ancora sperimentali, esemplari, di bandiera significa solo imbrogliare se stessi.

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La mia foto
Napoli, NA, Italy
Maestro elementare, da undici anni coordina il Progetto Chance per il recupero della dispersione scolastica; è Presidente della ONLUS Maestri di Strada ed in questa veste ha promosso e realizzato numerosi progetti educativi rivolti a giovani emarginati.