sabato 5 settembre 2009

Quando il leone e la gazzella dormivano insieme

Nel titolo non c'è un errore, il verbo è all'imperfetto: un tempo il leone e la gazzella dormivano assieme,  perché gli uomini riuscivano a sognare questo sogno, poi le utopie si sono reificate e il verbo è passato al futuro.

Il leone e la gazzella dormiranno assieme; questa l’immagine di un mondo pacificato che ricorre  in molte varianti nei sogni utopici dell’uomo.  Anche questa utopia sembra a portata di mano: se guardiamo in internet o anche “paperissima” è pieno di ‘nemici’ che convivono  e si amano:  cani che allattano gatti, leoni che amano caprette, gatti che razzolano con i piccioni, un topo dormiente in un affettuoso abbraccio con un gatto, gatti che giocano con anatre. L’intensità di questi rapporti talora sfocia in piccoli drammi quando si trasforma in un improbabile corteggiamento amoroso.
Il più delle volte si tratta di animali che vivono in cattività e che da giovani, talora da orfani, hanno sperimentato la convivenza. Anche in caso di penuria di cibo mai viene rotta la fratellanza. Insomma persino tra quelli che non sono dotati di parola, esiste la possibilità che l’aggressività e la violenza siano ‘educate’.
Leggendo i due ottimi articoli di Marco Rossi Doria ed Enrico De Notaris  voglio aggiungere questa nota e questa domanda: quale è l’antagonista della violenza e dell’aggressività?
Presso le specie aggressive questo antagonista è il gioco sociale, ossia quelle attività in cui si usano i ferri del mestiere (artigli, zanne, unghie e quant’altro)  senza far male, creando un legame ed un riconoscimento reciproco. In molti casi queste attività assumono l’aspetto di un rituale, una sorta di danza in cui i movimenti dell’aggressione sono frenati e rielaborati. Persino il nostro sorriso sembra una evoluzione del mostrare i denti in segno di minaccia che diventa invece una rassicurazione circa il fatto che non intendo usarli contro di te. Sarà capitato a molti di giocare con gli artigli del gatto o con le zanne del cane e sappiamo che mai la stretta della mascella sarà eccessiva, mai le unghie saranno estratte del tutto. Ogni tanto capita qualche bestia che controlla male il meccanismo e ti fa male sul serio. Spesso questi incidenti accadono perché involontariamente abbiamo emesso segnali di aggressività vera.  Un altro inibitore della violenza sono i segnali di resa che hanno spesso l’aspetto di una posa infantile: ad esempio offrire il ventre molle può bloccare un morso e trasformarlo in una leccata di pulizia. (certo bisogna avere sangue freddo o perfetta incoscienza per fare questo).
Insomma la violenza è innata la pace si costruisce: anche in natura, anche senza parole.
E questo è il primo assioma da tener presente, se no scambiamo la mancata educazione per cattiva educazione. 
Nel mio primo giorno di scuola materna, un bambino di tre anni, aggredito – come di norma -  da un coetaneo riuscì a sgaiattolare nella scuola elementare per andare da suo zio - di anni 6 - a chiedere aiuto. Il commento di alcune mie colleghe fu “così piccolo e già camorrista”; anni dopo in un corso per docenti impegnati nella ‘lotta alla dispersione’ una delle osservazioni dei docenti che venivano per la prima volta a Barra era: mi ha impressionato che così giovani siano già così violenti; una docente coinvolta nell’accoglienza in un istituto tecnico, dopo la partecipazione ad un focus group molto crudo disse:  "ora che li ho conosciuti ne ho paura" e poi gridò: "io non sono come loro!!!"
Insomma chi ha subito o agito il processo di incivilimento considera il fare civile come la vera natura umana anzi l’unica natura umana (“fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e conoscenza” Dante) e considera quelli che non seguono le sue regole come altro da sé come fuori del consorzio umano.  Le radici della profonda  e universale tendenza espulsiva nei confronti del diverso sta nella separazione del bene e del male, dei buoni e dei cattivi che un tempo campeggiava sulle due metà della lavagna separate da una linea.  Bene e male sono profondamente diversi, non vanno confusi ma vivono nelle stessa casa e ogni tentativo di mettere fuori la ‘cattiveria’  rinsalda il suo stare con noi perché solo agendo con grande cattiveria possiamo buttarla fuori casa. Se non riconosciamo e accettiamo come umano, come nostro, anche ciò che ci ripugna e che rifiutiamo come modello di comportamento noi non siamo in grado di capire come disinnescare il meccanismo della violenza come creare antagonisti all’aggressività. Quel po’ di Freud che so mi dice che la lezione più grande  che ci ha lasciato è riconoscere che sotto le spoglie civili le emozioni elementari esistono e si fanno sentire, che il nostro compito non è negarle, ma riconoscerle e addomesticarle.
Il secondo assioma riguarda i modi dell’educazione: la convivenza si insegna attraverso la convivenza. Ogni conoscenza ha un suo specifico modo di essere e di essere trasmessa: la convivenza non si trasmette con il ragionamento ma con la partecipazione ad essa.
Le scene che riportano Marco ed Enrico sono le scene di partecipazione ad una realtà violenta che impone la sua legge a tutti e che bandisce chi non riesce a starci dentro.  Le reazioni a questa violenza sono simmetriche, dello stesso genere, sono tentativi espulsivi o tentativi di isolamento mai tentativi di integrazione, ossia di ricostituzione dell’intero, di una unità organica di convivenza.
A Scampia forse abitano più persone del ceto operaio e medio che non sottoproletari criminali però vivono in ‘parchi’ trincerati con guardie armate al cancello; a Ponticelli accanto al “Lotto zero” c’è il parco Vesuvio, un’oasi trincerata senza alcun rapporto col resto; a Barra tra Piazza Crocelle, i conglomerati di case nelle corti di corso Sirena,  da un lato e Rione Bisignano dall’altro  esiste una distanza sociale maggiore che tra Arenella e Posillipo; a San Giovanni tra rione Villa e le case dell’Intendenza di finanza, o via Bernardino Martirano, ci sono muri di separazione mentale più alti di quelli di Berlino. E potrei fare un elenco lunghissimo di separazioni che vivono dentro quartieri a loro volta separati dal resto della città.  L’acuirsi della violenza nasce da queste separazioni e le sta alimentando in modo esponenziale fino alla fuga dei ‘buoni’. Sono sempre di più i ragazzi che a scuola hanno paura di andare non per paura dei voti, non per  diffidenza verso i docenti o lo Stato,  ma per paura dei compagni  per paura che essi siano come li sentono descritti dai mass media e dalle leggende metropolitane  non avendone mai fatto esperienza diretta.  In una scuola dove mi sono occupato di accoglienza dei nuovi allievi, quasi tutti gli allievi hanno dichiarato che i compagni gli erano apparsi migliori di come si diceva: semplicemente era accaduto che avessero potuto parlare tra loro  in una discussione guidata prima di conoscersi attraverso aggressioni e scontri.
Dunque la scuola ha la sua parte come dice Marco.
Ha la sua parte perché subisce ed amplifica la segregazione sociale: in ogni quartiere ci sono scuole ‘bene e male’ spesso nello stesso edificio. Ci sono presidi e docenti che fanno pulizia etnica su basi non etniche. Il grido “bisogna far pulizia” eccheggia  nel parlottio della sala docenti (mai nel collegio per carità, li siamo tutti politicamente corretti):  pulizia dei cialtroni, degli scostumati, dei violenti, di quelli che non studiano, di quelli che aggrediscono.  In alcune prime medie dopo pochi giorni di scuola fioccano sospensioni a ripetizione e sospensioni di massa, finché la situazione non si ‘normalizza’.  In una scuola che conosco, dopo due mesi di scuola hanno accatastato i banchi vuoti in un angolo  giusto per avere più spazio e sancire  il non ritorno dei reprobi. Scene ancora più dure si ripetono al primo superiore.
E che fine fanno questi che le scuole bene in un modo o nell’altro hanno fatto fuori? Vanno alle scuole ‘male’ quelle dove “l’abbiente non è buono” (come dicono le signore acculturate della zona). Qui possono trovare docenti che li aiutano a crescere, ma più spesso una scuola allo sbando dove cambiano insegnanti in continuazione, dove  fuggono i docenti prima dei ragazzi, una situazione in cui spaccando il capello della cattiveria in quattro è sempre possibile trovare qualcuno più cattivo da buttar via. 
Quindi il rigore c’è, la ‘tolleranza zero’ c’è, gli adulti che fanno rispettare le regole pure, e però la produzione di sbandati cresce continuamente.
La scuola potrebbe fare di più o meglio? Certamente, ma il movimento di segregazione sociale è troppo forte e troppo esteso per le forze della scuola.  E’ necessario capire quale città vogliamo. Io mi sono estraniato da dibattiti riguardanti Bagnoli o la costa orientale, o altre  grandiose trasformazioni urbanistico-industriali. Sono scelte importanti e non indifferenti ma forse fuori della portata di molti di noi. In ogni caso a me molto di più interessa quale modello di convivenza proponiamo, qual gesti concreti facciamo perché la coabitazione nello stesso territorio si trasformi in una comunità dove si apprende la convivenza  attraverso la buona convivenza.  E coloro che si sono fatti portatori di  discorsi innovativi e democratici in nulla hanno lavorato a proporre con azioni concrete un modello di convivenza.  La democrazia e la legalità sono spesso pensieri ornamentali per gli abitanti dei campi trincerati, ma la democrazia antropologica, quella in cui la gazzella – senza timore – dorme insieme al leone, questa democrazia non abita a Napoli.
E la scuola, questo modello di scuola - non da oggi - non è attrezzata. L’aula scolastica è fatta per coltivare i rapporti verticali, per promuovere cooptazioni, per assimilare i barbari che imparano la lingua dei dominatori, ma non è fatta per sviluppare relazioni orizzontali, non è fatta per promuovere l’integrazione dei diversi.
Ci sono decine di migliaia di nobili ed efficaci tentativi di correggere questa attitudine della scuola tuttavia qui occorre mettere in discussione una ‘tecnologia’ che è intrinsecamente trasmissiva ed escludente al di la delle intenzioni e delle battaglie dei singoli.
I maestri di strada che Enrico De Notaris immagina siano presenti nelle strade di Napoli (“risparmiateci i maestri di strada che non si accorgono della presenza a Montesanto, ogni mattina, di una bambina in età scolare che accompagna il padre che chiede, in ginocchio, l’elemosina, e paradossalmente proprio davanti all’ex Provveditorato agli studi, in via Forno Vecchio..” Repubblica 31 gennaio 2006), sotto il profilo strutturale sono un grande bluff, sotto il profilo culturale sono - stante la cultura dominante in questo momento - una cisti senza futuro.
Noi abbiamo dimostrato che è possibile smontare la macchina che produce violenza,  che è possibile tessere legami nelle nostre degradate periferie, che è possibile creare spazi di convivenza nella città e spazi di pensiero  e di parola negli animi degli esclusi.  Ripeto una  delle mie tre richieste: ma c’è qualcuno che pensa di dover ripartire da questo livello, dal modo in cui si fanno crescere le nuove generazioni per rifondare la città, la convivenza e la politica. Se è così c’è uno spazio per i tanti che nella scuola e fuori della scuola, senza conoscersi,  mandano avanti il mondo, se no non c’è futuro.
“…un uomo che coltiva il giardino
il ceramista che intuisce una forma e un colore
chi è contento che esista la musica
chi preferisce che abbiano ragione gli altri
Tali persone, che si ignorano, stanno salvando il mondo…”.
(Borges, citato da Enrico De Notaris)

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Napoli, NA, Italy
Maestro elementare, da undici anni coordina il Progetto Chance per il recupero della dispersione scolastica; è Presidente della ONLUS Maestri di Strada ed in questa veste ha promosso e realizzato numerosi progetti educativi rivolti a giovani emarginati.